Era il cuore pulsante della città vecchia. Di una città antica, con i suoi odori, i suoi rumori.
I panni stesi alle finestre sventolavano a festa, come tante bandiere colorate.
Le donne affaccendate nei lavori di casa si scambiavano con le vicine, ad alta voce, i loro crucci, i loro affanni;
con i monelli tra le gonne e il moccio perenne al naso.
Un mescolamento di odori inondava i sensi: l’aroma del pane appena sfornato da Ercole si fondeva
con l’odore pungente del piscio dei gatti. Il profumo del sugo della sora Cesira riempiva i vicoli,
e si amalgamava con quello del coniglio in porchetta della dirimpettaia.
Mentre gli uomini nelle loro umide botteghe artigiane, ma fresche anche con l’afa di luglio,
battevano il ferro, o martellavano le assi d’abete per la conca della vergara.
Lo stagnino saldava, limava: riparava la grondaia, ormai logorata dal tempo.
Il tipografo, con la sua nobile pedalina, continuava a comporre caratteri grandi e piccoli,
e l’odore piacevole dell’inchiostro carezzava la carta di manifesti e locandine.
E, il sarto fuori dalla sua bottega, seduto sul banchetto intento a imbastire punti,
allietava i vicoli con la sua voce baritonale; in attesa di rinfrescare le sue corde vocali all’osteria.
I monelli si divertivano a giocare tra i vicoli stretti e le ripide scalette. Si rincorrevano chiassosi nascondendosi nelle umide cantine
di muffa. E le pantegane sgusciavano via, nascoste tra le cataste di legna pronta per l’inverno,
e i gatti in allerta le puntavano come impazziti.
Mentre il pittore spalmava le sue tele con gli oli colorati, e l’aria si saturava
di essenza di trementina, di acqua ragia. I ragazzi spavaldi del gruppo musicale,
a due passi da via Roccabella, con i loro strumenti elettrici, stavano fondendo
la modernità delle note con le antiche tracce in un luogo sacro di storia.
Le lavandaie, con le schiene curve, stavano a sbiancare i panni nel lavatoio di porta Valle.
Nell’aria odore di pulito, di sapone di Marsiglia, di fatica, di sudore, di amore.
L’allegria dei loro canti e lo sbattere dei cenci sulle assi dava un ritmo alla loro fatica.
E lo stracciaro, con il suo carrettino, passava per le viuzze a recuperare cose vecchie;
mentre il pellaro con la sua bicicletta arrugginita andava strillando: pellarooo! pellarooo!
Le pelli di coniglio maleodoranti erano poche, ma le mosche svolazzanti erano tante,
e ronzavano intorno impazzite attratte da quel tanfo di morte.
Le sirene degli opifici (della Sima, della Saffa) scandivano le ore della giornata,
e gli operai lasciavano le loro abitazioni per far crescere una Jesi vitale e laboriosa.
Che ora non esiste più.
Il progresso e la modernità hanno cancellato tutto: usanze, costumi, abitudini e lavoro.
Come il desueto cancellino di feltro sulla lavagna: dove le tracce di gesso permanevano sbiadite.
Così è la mia memoria che si rifiuta di dimenticare lasciando dentro di me un’immagine indelebile
di una Jesi viva, ricca di lavoro e di tradizioni.
© Franco Duranti - 2012