Dall’ultima volta che ci eravamo visti, erano trascorsi più di cinque anni. Allora, prima di finire dentro, lavoravamo nella stessa azienda. Ero addetto al reparto verniciatura e Rosy in ufficio, all’amministrazione.
Da allora non l’avevo più incontrata: quando mi disse che l’aria che si respirava a Montacuto non le piaceva, diceva di non si sentirsi a suo agio in quel posto, quando veniva a farmi visita. Che non ce la faceva a vedermi tra quelle mura.
Cazzo! Anch’io avrei preferito starmene fuori… ma purtroppo, avevo combinato un bel casino. Il tizio che avevo legato e imbavagliato con il nastro adesivo, durante la rapina, era morto. Attacco di cuore.
Eppure, mi era sembrato che tutto fosse filato liscio, non mi aveva visto nessuno. Ci mancava quell’arresto cardiaco a complicare tutto. Avevo fatto un bel colpo. Se non fossi stato identificato dalle telecamere a circuito chiuso. Il cappuccio della felpa calzato fino agli occhi non mi aveva protetto abbastanza. Poi, la morte di quel poveretto…! Quella, non era proprio prevista.
Non chiedetemi come sono finito in questa storia. Non lo so nemmeno io! Forse la colpa di questa vicenda finita male, credo sia stata provocata dalla crisi economica. All’improvviso mi ritrovai senza lavoro, senza certezze, senza soldi. Ero disperato e la disperazione, a volte fa imballare il cervello. A me è successo così.
Ecco quello che mi spinse a fare quella maledetta rapina finita male. Mi diedero sette anni. Mi dispiace per quel poveretto. Io cercavo solo un po’ di soldi facili per sopravvivere, ma quella non fu la strada migliore.
Glielo dicevo a Rosy, stavamo così bene in quella ditta di verniciatura… peccato!
Mi licenziarono perché non c’erano abbastanza commesse, lei invece rimase lì ancora per un po’, poi cambiò azienda.
Mi trovai all’improvviso a fronteggiare una vita nuova. Non più scandita da quei ritmi ai quali ero abituato.
Rosy dopo quella storia mi mollò. Eppure, mi sembrava che tra noi potesse funzionare. Ebbe paura. Non se la sentiva di aspettarmi, e mi scaricò come un sacco vuoto appena concluso il processo.
Adesso sono di nuovo libero, sono uscito per buona condotta con due anni d’anticipo. Mi hanno affidato ai servizi sociali. Ma vi assicuro che stare dentro cinque anni non è stato semplice. Attualmente sono in regime di semilibertà: devo firmare in caserma tre volte al giorno. Perlomeno, ora ho un straccio di lavoro che mi tiene impegnato il cervello.
Faccio l’operaio in un’impresa di servizi collegata al comune. Sono addetto alla pulizia dei vetri. Un lavoro pulito, non faticoso. Non è male. Sono diventato un vero esperto nella lucidatura dei cristalli. Mi piace, poi, almeno adesso vedo un sacco di gente… non più le solite facce disperate che avevo davanti durante l’ora d’aria. Quelle facce torve, scure, incazzate: come la mia. Con la sola ed unica speranza di uscire da quel posto di merda.
Adesso, finalmente sono fuori e mi sfila davanti agli occhi un sacco di bella gente; studenti allegri e sghignazzanti, giovani mamme con le carrozzine e uomini d’affari; poi barboni e randagi, casalinghe con la borsa della spesa e pensionati con il cane al guinzaglio.
E, finalmente donne! Quelle che mi sono mancate in quel posto maledetto. Belle donne. Libere e disinvolte con i loro tacchi da 12. Ma anche donne normali, magari grasse e con fianchi larghi o magre come un grissino. Insomma, donne!
Quella mattina, di metà maggio, stavo lustrando il lato esterno di due enormi vetrine panoramiche di una boutique del corso. A quell’ora, non c’era ancora molto movimento, e mentre stavo facendo scorrere la racla per raccogliere l’acqua, l’occhio si sofferma all’interno del negozio. Una commessa stava confabulando con una cliente mentre le mostrava un capo da un manichino.
Lei era di spalle, ma il suo portamento aveva qualcosa di familiare. Una cascata di capelli mossi e biondi le ricadevano sulle spalle quadrate, come quelli di Rosy. Allora però, quando ci frequentavamo, le mèches scure non le aveva. Sembrava proprio lei, ma forse mi stavo sbagliando. Erano trascorsi tutti quegli anni…
Decisi di aspettare. Temporeggiavo, con la spugna, ripassavo dove ero già passato. Lei si voltò verso la vetrina, indicando alla commessa un altro capo esposto sul manichino che avevo di fronte.
Era lei. Era proprio Rosy!
Per un attimo il suo sguardo si scontrò con il mio. Non sapevo se mi avesse riconosciuto. Abbassai lo sguardo, non volevo che mi vedesse in quella situazione. Il cuore per l’emozione mi saltò in gola, lo sentivo pulsare come impazzito. Raccolsi la mia attrezzatura e mi affrettai a riporla nel furgone. Stavo per mettere in moto. Con la coda dell’occhio la vidi uscire dal negozio e avvicinarsi. Picchiò sul vetro del finestrino. Il cuore continuava a battermi in gola come avessi fatto una corsa in salita.
«Ciao, Rocco! Aspetta!» - Mi bloccò, come se tutto quello che mi era capitato non la riguardasse. Ricambiai il suo sguardo, e i suoi occhi, forse velati da un filo di vergogna, mi fissavano come a chiedere scusa per tutto quello che era successo.
Avrei voluto dirle che la amavo ancora e che mi era mancata da morire. O, gridarle che era stata una vigliacca, un’opportunista e che mi aveva scaricato come un sacco di spazzatura. Come in realtà mi aveva fatto sentire lei. Ma non ce la facevo. Dalla mia bocca insabbiata uscì fuori solo un ridicolo, impacciato: «Ciao, come stai? Ti trovo bene!»
Erano trascorsi più di cinque anni: ero cambiato, anche lei non era più la stessa. Però mi stavo accorgendo, nonostante tutte le cose non dette e mai risolte, di essere ancora innamorato di lei. Un amore finito male.
Come me!
Mi disse: «Volevo chiederti scusa, per come è andata…» Stava cercando di trovare una giustificazione alla sua latitanza, e aggiunse: «non ce la facevo a vederti lì».
«Lo so!» - Risposi d’istinto.
Non sentivo più i rumori caotici della città: il vociare delle persone, il clangore delle auto, il cicalino del tram, il fischio del vigile urbano. Nel preciso istante in cui lei era comparsa, avevo avuto la sensazione che tutto intorno si fosse fermato, per lasciare spazio alle nostre parole. Quelle parole che non avrebbero cambiato nulla nella mia vita.
La rabbia mi stava montando. Avrei voluto scagliarle addosso tutta la merce del furgone; seppellirla con secchi di plastica, scope, flaconi di detergente e stracci sporchi. Ero di pietra e continuavo a lisciarmi la folta barba che mi ero lasciato crescere per sembrare un altro. Continuavo a fissare il cruscotto del Fiorino, e nella mia mente stava scorrendo, ancora una volta, tutta la nostra vecchia storia. Sarei voluto scappare e andarmene. Piantarla lì, come aveva fatto lei. Intanto, ero lì, immobile come una statua e Rosy continuava a fissarmi.
La città, come al risveglio di un brutto sogno angosciante, si era messa di nuovo in movimento. Forse non si era mai fermata. Improvvisamente tutto mi infastidì. Avrei voluto essere in un’altra dimensione. Essere immerso con Rosy dentro una cupola di cristallo, nella quale solo noi esistevamo e tutto il resto fosse rimasto fuori.
«Capisco, è dura…» replicò distrattamente: «non si possono cancellare cinque anni di carcere».
Con le mani tremanti, girai la chiavetta. Misi in moto e lasciai che il tempo continuasse a fluire.
© Franco Duranti - 2014