Prima di quella avventura tutto sembrava scorrere liscio, sui binari della normalità. Fino al giorno in cui Stefano non riuscì a controllare più la sua anima e decise di andarsene. La sua mente, prima di quel lungo viaggio, era in continuo subbuglio.
Stava vivendo un periodo della sua vita piena di intralci. La sua testa era in continuo movimento: camminava, correva, poi si fermava bruscamente e ripartiva di colpo. E nel suo vagare, all’apparenza senza meta, si scontrava con i mille pensieri, e vi si attorcigliavano come tralci di vite.
In quella sua testa che si portava appresso da oltre cinquant’anni.
- “Accidenti!” - pensò in quel momento, mentre viaggiava con il fuoristrada su quelle piste sterrate nel deserto afgano. - “Questa mia maledetta testa, è da un bel po’ di tempo che mi fa compagnia, e credo che non saprei vivere senza.”
In quel periodo di conflitti tra bande di talebani, non era affatto scontato andare in giro senza testa. Pensava che non avrebbe mai voluto fare la fine di quei disgraziati. Ma il rischio non era affatto remoto. Negli ultimi mesi, purtroppo, a qualcuno era già capitato di perderla, solo per aver scelto di fare il giornalista o il fotoreporter.
Ma lui era lì, per scrivere la trama del suo prossimo romanzo ambientato in quella regione. Era sbarcato da pochi giorni a Kandahar, con il volo proveniente da Roma, prenotato all’ultimo momento. Non era certo lì per turismo, ma per conoscere i luoghi e le abitudini di quel popolo devastato da troppi anni di guerre.
Aveva afferrato quell’opportunità e, senza pensarci troppo, aveva lasciato l’Italia.
Il suo editore gli aveva proposto di scrivere un romanzo che parlasse di vita e di morte, che fosse ambientato laggiù.
Lui aveva accettato perché in quel periodo la sua vita era diventata troppo complicata.
Per la gestione delle spese di viaggio e di permanenza non doveva preoccuparsi, a quelle ci avrebbe pensato lui. L’editore infatti contava molto sulla creatività di Stefano. La sua scrittura fluida e coinvolgente riusciva ad attirare lettori. I suoi due ultimi romanzi erano schizzati subito nei primi posti in classifica e anche la critica in quel momento era dalla sua parte: Stefano si stava rivelando un buon investimento.
La casa editrice voleva storie vere, che parlassero di disperazione e di guerra. Quella guerra che giungeva nelle case attraverso i servizi dei telegiornali. Il pubblico, però, voleva capire a fondo. Quei drammi raccontati frettolosamente andavano spiegati. Non era possibile che laggiù ci fosse solo odio e barbarie. Lui, in quell’inferno, sarebbe riuscito a scovare anche l’amore, e voleva raccontarlo.
Stefano si sentiva pronto per quella storia, e forse sarebbe stata un po’ anche la sua.
Avrebbe parlato di sabbia, di polvere, di distese immense, di paesaggi spettrali e di calore. Che fa rima con amore, ma anche con dolore. E, in quel posto, d’amore, ce n’era ben poco, ma lui sarebbe riuscito a scovarlo.
Per scrivere quel romanzo, Stefano aveva abbandonato la tranquillità del suo studio, davanti alla scrivania.
Aveva mollato tutto: anche sua moglie, i due figli e la sua amante.
Era scappato da Firenze anche a causa di quella storia complicata, che aveva intrecciato con Valeria e che adesso stava cambiando la sua anima.
Dopo il suo ultimo successo editoriale, uscito pochi mesi prima della partenza, stava per buttare all’aria il suo matrimonio. Così, aveva accettato quella proposta.
Alcuni mesi di “vacanza” a Kandahar.
Così, avrebbe staccato la spina e avrebbe provato a mettere ordine ai suoi problemi sentimentali.
***
Nella sua sfera privata, tutto era diventato maledettamente complicato da quando aveva scoperto che la sua anima era divisa e condivisa tra due donne.
Mentre il fuoristrada procedeva su quella pista dissestata, tra i sobbalzi e la polvere, continuava a domandarsi se fosse stato possibile amare la moglie Elisa e contemporaneamente amare anche l’altra.
Sì, perché lui era certo di amare Elisa, o perlomeno credeva di esserne convinto.
Si conoscevano da vent’anni e da quel matrimonio erano nati due splendidi figli che adorava. Il rapporto con sua moglie, nel tempo, era stato costruito sulla lealtà e sul rispetto reciproco. Avevano promesso di dirsi tutto, e anche quel suo tradimento faceva parte di quel “tutto”.
Valeria, l’ editor del suo ultimo best-seller, era diventata per Stefano quel “tutto” che forse gli mancava.
Per lei, aveva perso la testa.
Il suo sorriso contagioso lo aveva spiazzato. Stava perdendo l’equilibrio senza accorgersi. Stava cadendo da quel filo in tensione, come un funambolo inesperto. Quell’equilibrio che aveva mantenuto saldamente con sua moglie, per venti’anni.
Era scivolato sulla sua bocca mentre stavano discutendo sulla possibilità di tagliare alcuni passaggi del suo ultimo romanzo. Quello che poi lo avrebbe consacrato nell’olimpo degli scrittori di grido.
E, quel bacio rubato era stato solo l’inizio della loro storia e il principio della sua crisi in famiglia.
Quarant’anni, bionda, spigliata e priva di pregiudizi si era lasciata sedurre da Stefano. Dal suo sguardo sempre attento, dal suo fascino intellettuale, dai suoi capelli brizzolati e dalla barba incolta.
Ma lui, dopo pochi mesi di quel rapporto clandestino, non ce la faceva più a reggere quel dualismo.
Lei aveva minato la sua tranquillità e, forse, per trovare uno spiraglio di luce nella sua anima, aveva deciso di partire.
Non riusciva più a scrivere nel suo ambiente. Improvvisamente la sua mente era divenuta sterile, imballata. Come quella cassa sigillata, appoggiata nel terminal prima di partire e pronta per essere caricata su un cargo.
La moglie, prima salutarlo, gli aveva chiesto perché volesse abbandonare tutto. E, Stefano con le lacrime agli occhi, le disse: “Vado via per un po’… vado a riprendermi l’anima.”
***
Tra i sobbalzi del fuoristrada, la fine sabbia che filtrava impietosa e la luce accecante che gli violentavano gli occhi, continuava a pensare che era diventato impossibile vivere in quella assurda dimensione a tre.
Voleva provare a far chiarezza.
Dentro di sé, troppe contraddizioni continuavano a scontrarsi senza trovare una via d’uscita.
Si stava convincendo, ma non lo voleva ammettere, che forse avevano ragione entrambe a chiamarlo stronzo.
Sì, a volte pensava di essere un po’ stronzo. Le stava prendendo in giro, e forse un po’ anche sé stesso.
Quasi si fossero messe d’accordo contro di lui.
Nel bel mezzo delle loro accese discussioni, sia Valeria che Elisa lo chiamavano bastardo.
Lui ci rideva su. In fondo gli stava bene anche così... ci rideva, ma si sentiva anche un po’ bastardo.
Se entrambe, però, gli dicevano - e non era affatto raro nei loro litigi - che era anche un maledetto figlio di puttana, qualcosa che non andava ci doveva pur essere in lui.
E se due donne, innamorate dello stesso uomo, ti rovesciano addosso una serie di epiteti pesanti… continuava a pensare, forse, in lui, c’era davvero qualcosa che non andava.
- “Sarò veramente uno stronzo, un bastardo e un figlio di puttana?”
Questo era quello che si stava domandando mentre le piste sterrate, a sud di Kandahar, gli correvano incontro con tutta la loro asprezza.
Il Land Rover, impietoso, alzava nuvole di polvere rossastra: un caldo secco e opprimente continuava ad offuscare i suoi pensieri.
Non aveva voglia di imbastire un discorso con i due compagni di viaggio.
Era teso e continuava a domandarsi dove avesse sbagliato: “Forse ad amare due donne contemporaneamente?”
Anche se era in territorio afgano e l’uomo è libero di avere più mogli, lui si sentiva comunque in torto.
Non aveva la pretesa di essere nel giusto, ma era sicuro che l’amore non potesse essere considerato uno sbaglio.
Banalmente, cercava di convincersi che era meglio amare piuttosto che odiare.
La luce tremolante e biancastra di metà mattino irradiava con violenza lo scarno paesaggio: solo pietre e sabbia finissima. Entrava dai finestrini e se la ritrovava incollata dappertutto: sugli occhi, nelle orecchie, nei capelli.
Procedevano a velocità sostenuta: l’autista non era di buona compagnia, era nervoso. Controvoglia lo stava accompagnando in quella zona.
Di recente, clan di bande di talebani avevano assaltato alcune carovane. Ed era rischioso procedere così, senza una scorta. Ma Stefano era deciso ad andare avanti. Voleva arrivare a quel villaggio dove il mese prima c’era stata una rappresaglia.
In quel villaggio, a sud di Kandahar, gli uomini di una tribù erano stati sgozzati senza pietà solo per aver opposto resistenza e le donne violentate brutalmente. Non avevano risparmiato nemmeno le più anziane.
Era intenzionato a parlare con loro: approfondire e capire, senza essere invadente. Lui non conosceva la loro lingua, parlava solo l’inglese e un po’ di francese. Ma Adel, un uomo del posto di circa trentacinque anni che viaggiava con loro, masticava un po’ d’inglese. Si era prestato a fare da interprete. Duemila dollari erano serviti a convincerlo.
Tutto intorno solo deserto: come una pesante coperta di brace ardente li stava soffocando.
All’improvviso, da un’altura sulla loro destra, si accese un bagliore, una nuvola di fumo bianco in quella luce accecante.
Dopo alcuni secondi, una granata esplose davanti al loro mezzo provocando un piccolo cratere. L’autista, con estrema abilità e calma, riuscì a schivarlo senza capottare. La sua preoccupazione di poco prima era stata una giusta premonizione.
Schegge del razzo e frammenti di pietra colpirono la carrozzeria e il parabrezza andò in frantumi. Il grido strozzato di Stefano lacerò l’aria, e con le mani si strinse il volto per proteggersi.
In un attimo all’interno della camionetta piombò un gelido silenzio poi, simultaneamente, la paura li assalì.
L’uomo alla guida, pronto nella manovra, riprese l’assetto della vettura e si lanciò verso sud a tutta velocità.
Per fortuna, non c’erano stati feriti. La buona sorte si era fermata dalla loro parte. L’interprete afgano confermò, con il suo inglese stentato, che quell’attacco era stato solo un avvertimento. Se avessero voluto fare sul serio, i loro corpi ridotti in brandelli sarebbero già saltati in aria e sparsi tra le pietre del deserto.
Giunsero al villaggio dopo circa mezz’ora dall’attacco. Provati ma indenni.
Ad accoglierli non c’era anima viva, le donne erano rintanate nelle loro catapecchie di pietra rossastra. Come lucertole impaurite nelle loro tane di sassi e sabbia.
Adel provò a prendere contatti, spiegando le loro intenzioni: parlò con una vecchia del villaggio. Le donne erano intimorite, non volevano parlare: credevano che il loro fuoristrada facesse parte di quella banda.
Una banda di sei uomini, dalle lunghe barbe nere e con il capo coperto da scuri turbanti, che ogni settimana andava a prendere i loro corpi. Come lupi affamati, arrivavano con un Land Rover, come quello su cui viaggiava Stefano, e venivano a soddisfare i loro appetiti sessuali.
Le più giovani erano diventate le loro schiave, e le anziane erano costrette a servire loro del tè e a placare la loro fame cucinando carne di capra alla brace.
Dopo molte rassicurazioni, Adel le convinse a farsi intervistare.
Stefano parlò con le quattro giovani donne.
I loro volti, coperti dal velo, lasciavano intravedere solo occhi tristi. Occhi spenti, persi nel vuoto.
La loro giovane vita era stata rapinata, le loro anime scardinate.
La più giovane di sedici anni, con gli occhi neri come due perle di carbone, gli disse che avrebbe voluto continuare a studiare e venire in Europa e fare il medico. Ma i suoi sogni si erano infranti. Erano andati in mille pezzi come un calice di cristallo.
Lentamente, anche le altre lasciarono scivolare le loro tristi confessioni. Le parole, seppur incomprensibili della loro lingua, venivano registrate e giungevano crude a Stefano. Uscivano dalle loro bocche velate e si schiantavano nella sua testa: tavole di legno spezzate.
Una di loro, di circa trent’anni, portò del tè fumante e un vassoio in peltro con bicchieri decorati d’oro. Quell’oro che, nonostante la violenza e la brutalità subita, continuava a brillare.
Lui era ospite e andava trattato con gentilezza e deferenza.
***
Al ritorno da quel duro viaggio, iniziò a scrivere il suo nuovo romanzo.
Quelle testimonianze di dolore, che erano rimaste impresse nella sua anima, si srotolarono nelle pagine di quel libro. E vennero pubblicate.
In pochi mesi, quel racconto di verità raggiunse le classifiche dei più venduti.
Valeria, mentre lui era in Afganistan, aveva abbandonato la casa editrice.
Il suo editor era cambiato. Elisa ora collaborava con lui.
Il titolo di quell’ultima fatica letteraria, per la quale suo marito aveva rischiato la vita, fu scelto proprio da lei: “Mi riprendo l’anima - viaggio nel dolore”
© Franco Duranti - 2015