Di suo nonno aveva solo un vago ricordo. L’aveva incontrato appena un paio di volte, prima che se ne andasse. Quando il vecchio lasciò questo mondo, era una calda mattina d’agosto. Franchetto allora aveva solo cinque anni ed era andato a fargli visita con la madre.
In quella famiglia numerosa la sua dipartita spiazzò tutti. Aveva lasciato nell’aria una scia di silenzio e di sgomento. Per la prima volta, la sua voce imperiosa aveva smesso di tuonare. I suoi comandi e le sue direttive, da ex sottufficiale d’artiglieria avvezzo a impartire ordini, erano cessati.
Tutti se lo aspettavano che prima o poi quel giorno sarebbe arrivato, ma nessuno se lo augurava. Il cuore, ormai stanco, di quel brontolone di ottantadue anni, aveva cessato di battere.
Ma per lui, che lo incontrava per la seconda volta, vederlo disteso con gli occhi chiusi come se dormisse, fu un brutto colpo. Lo conosceva appena e avrebbe voluto sapere di più della sua vita avventurosa. Della guerra che aveva combattuto in trincea e di quel giovane figlio morto, del quale lui ora aveva il compito di portarne il nome.
E poi, quel suo modo strano di parlare, un po’ burbero e perentorio… dopotutto, anziché intimorirlo, gli piaceva. Gli ricordava certi personaggi dei film western che aveva visto al cinema, quando la madre ce lo accompagnava.
La sua mamma quell’estate aveva deciso di portare con sé anche lui, Franchetto. Quel nome, Franco, era appartenuto a suo zio, il fratello della madre.
Un giovane, nato poco dopo la fine della Grande Guerra e morto di tubercolosi ad appena diciassette anni. La sua prematura scomparsa era stata una ferita insanabile per la famiglia, ancora più profonda del conflitto.
Aveva lasciato un solco di dolore: per questo, il nome (Franco) ancora continuava ad aleggiare nel tempo. Era stato rinnovato alla nascita degli ultimi suoi nipoti maschi: lui, il più piccolo Franchetto e suo cugino più grande Faffo che abitava in casa con il vecchio nonno.
Era come se quel nome avesse avuto la facoltà di riportare a nuova vita quello zio mai conosciuto. Questi due nomignoli servivano a non confondere i due cugini, benché uno abitasse a Jesi e l’altro in Ascoli.
In quei giorni a casa del nonno giravano due Franchi: Faffo e Franchetto.
Il nonno, però si rivolgeva al più piccolo, chiamandolo semplicemente lu frechì.
A lui quel nome sembrava strano: pur abitando sempre nelle Marche, nel giro di pochi chilometri, un bambino come lui a Jesi era un munello, in Ancona era un fiolo e in Ascoli diventava un frechì.
Il viaggio per arrivare ad Ascoli dal nonno era stato scomodo. Le vecchie carrozze di seconda classe infuocate dal sole, per tutto il tragitto, erano state sempre affollate. Le poltrone maleodoranti di polvere e di fumo stantio erano state prese d’assalto da orde di pendolari e da famiglie che si spostavano per la vacanza verso il mare. Lui non lo sapeva ma era sempre così, e comunque negli scompartimenti ristagnava un misto di odori fastidiosi.
Polvere, sudore ed effluvi corporei.
L’intero viaggio lo avevano affrontato in piedi, lungo il corridoio e per cambiare l’aria, bisognava aprire i finestrini. Solo allora, finalmente, il profumo del mare irrompeva nella carrozza e si poteva respirare a pieni polmoni lo iodio e l’odore di salsedine.
Il treno procedeva lento e aveva fatto tappa ad ogni stazione. Solo allora, dai finestrini rimasti aperti, entrava il gradevole profumo del caffè espresso del bar che si fondeva con quello di pesce fritto o con quello della salsa di pomodoro che proveniva dalle case allineate lungo la ferrovia.
Per arrivare a casa del nonno avevano cambiato convoglio due volte: prima a Falconara, poi a Porto d’Ascoli. Per percorrere poco meno di centocinquanta chilometri impiegarono quasi tre ore. Non vedeva l’ora di incontrare quel vecchio di cui aveva sempre sentito parlare.
Nonostante il caldo e i disagi, per Franchetto, quel viaggio era stato comunque piacevole. Con il naso incollato al finestrino, mentre il vento gli scompigliava i riccioli biondi, vedeva sfilare le spiagge della costa. I capanni colorati a strisce bianche e blu gli scorrevano veloci allo sguardo. I mosconi azzurri allineati sulla battigia sembravano messi lì per una parata militare.
Avrebbe voluto essere lì, con loro, con i bagnanti che sguazzavano festosi, mentre, sullo sfondo, le vele bianche punteggiavano il turchino del mare e un piccolo aeroplano scivolava nel cielo, lanciando volantini pubblicitari. Come farfalle, svolazzavano tra la gente con il naso all’insù.
La mamma lo rassicurò. Le alte palme di Cupra Marittima annunciavano quasi la fine del viaggio. Tra non molto sarebbero arrivati a Porto d’Ascoli e finalmente la coincidenza lo avrebbe portato a casa del nonno.
Di lui, del vecchio, sapeva ben poco e quel poco lo aveva appreso dalla madre, proprio durante il viaggio. Sapeva solamente che aveva combattuto, come sottufficiale d’artiglieria nella Grande Guerra, negli Alpini.
Già se lo figurava come un eroe con l’elmetto e il fucile mentre combatteva il nemico. Immaginava di sentire la sua voce tonante, tra gli spari, il fumo e la polvere mentre incitava alla carica. Come nelle scene dei film.
L’Italia aveva vinto la guerra. Ma lui, Giuseppe, era tornato a casa piuttosto malandato. Il conflitto lo aveva reso invalido della mano sinistra e quasi completamente sordo. Sordo come una campana incrinata.
Le cannonate in trincea erano state tante e credeva che anche gli altri fossero sordi come lui. Quindi, per questo difetto, la sua voce emergeva dalle altre con un paio di toni più alta del dovuto.
Dopotutto gli era a andata bene. Il colpo di mortaio gli era caduto assai vicino. Aveva fatto saltare in aria soltanto il mulo che trasportava il fusto del cannone. Mentre lui, a fianco della bestia, l’aveva scampata proprio bella.
Nei suoi racconti di guerra, continuava a favoleggiare spiegando che, se quel proiettile fosse cascato un metro più a destra, … allora lui avrebbe fatto la brutta fine del suo mulo. Ma una grossa scheggia, comunque, gli aveva troncato di netto la mano sinistra che sosteneva la briglia.
Giuseppe non si perse d’animo: era duro come una roccia. Al ritorno dal fronte, si fece costruire da un abile artigiano una mano in legno che sembrava vera e l’aveva ricoperta con un guanto di morbida nappa nera.
Franchetto guardava quell’arto finto e aveva quasi un senso di paura. In agosto non s’indossano guanti di pelle… e la sua mano era immobile come quella di un manichino.
Quando il nonno era partito per il fronte, aveva lasciato a casa la moglie Giulia e i tre figli ancora da crescere: Silvio di sei anni, Noemi di cinque (la madre di Franchetto) e Adriana di tre.
Tutte le mattine, la moglie, prima di aprire la bottega, andava in Cattedrale per raccomandarsi a Sant’Emidio. Si sedeva in fondo alla chiesa, nell’ultima panca vicino all’ingresso e pregava che lo facesse ritornare a casa sano e salvo.
Il Santo, solo in parte, l’accontentò. Infatti ritornò vivo, ma senza una mano, sordo e anche un po’ più “picchiatello” di quando l’aveva lasciata.
Nonostante le difficoltà della guerra, Giulia riuscì a cavarsela con i suoi tre figlioli. Il piccolo negozio di generi alimentari, che gestivano era stato sufficiente a farli crescere. E quando Giuseppe ritornò, anche lui si mise dietro al bancone a servire.
Ogni cliente che entrava nel suo negozietto di Piazza Arringo, doveva sorbirsi tutte le sue disavventure: le battaglie dell’Isonzo, i campi minati e quel colpo di mortaio che aveva fatto saltare in aria il mulo e tranciato la sua mano. Ormai quella vicenda l’avevano imparata tutti, ogni volta però aggiungeva un piccolo particolare condito con nuovi dettagli.
In città lo chiamavano il Sor Pippo. Era diventato quasi un mito. Quel diminutivo glielo avevano appioppato in trincea e ora tutti lo chiamavano così.
Anche in famiglia era “nonno Pippo”
In Piazza del Popolo, o al mercato nel Chiostro di San Francesco, la sua voce stentorea squarciava l’aria. Sia che si discutesse di politica o di questioni economiche lui era sempre al centro della disputa. Per non contraddirlo, il più delle volte gli davano ragione, anche quando aveva torto. La guerra lo aveva talmente sconvolto che era preferibile lasciarlo perdere.
Già a quarant’anni aveva tutti i capelli bianchi, dritti a spazzola. Come se ogni cannonata al fronte, glieli avesse drizzati ad uno ad uno. Quelli gli erano rimasti intatti, tali e quali, anche quando Franchetto andò a trovarlo con la madre. Però i denti, purtroppo no. Quelli gli erano cascati tutti come birilli: forse a causa della la piorrea, o forse la scarsa igiene, o forse il fumo. Franchetto questo non lo seppe mai.
Di lui si ricordava solo del Toscanello che pencolava dalla sua bocca sdentata. Del fumo bluastro che spiralava nella cucina mentre controllava la nuora che preparava il pranzo. Pippo continuava a fumare imperterrito appestando la casa, nonostante i congiunti gli proibissero di farlo al chiuso.
Era anche testardo, ma forse lo era stato sempre, ed era molto difficile farlo spostare dalle sue convinzioni. Dopo tanto insistere, i figli erano riusciti a convincerlo a mettersi la dentiera e alla fine lui cedette. Ma il vecchio preferiva farne a meno. Non sopportava sentirla ballare in bocca. A volte, mentre parlava ne perdeva il controllo e gli spuntava dalla bocca.
Fino a quando un bel giorno, forse stufo di sentirla girovagare nel cavo orale ne perse il controllo e, cadendo sul pavimento del corridoio, si frantumò.
Da allora rinunciò alla protesi. Ormai, le sue gengive, avvezze a masticare senza i denti, erano diventate dure come il cuoio. Una delle cose che non riusciva però a sgranocchiare era la crosta di pane.
Era riuscito comunque ad aggirare l’ostacolo, mettendola in ammollo nel boccale di vino rosso che, sempre colmo, stazionava davanti al suo piatto.
Seduto a capotavola con lo sguardo vigile controllava tutto e tutti, dispensando consigli. In realtà più che consigli erano ordini, come se ancora avesse a che fare con la truppa.
A fine pasto, il vino bevuto aveva già fatto breccia nella sua mente. Quello era il momento di brindare tutti insieme; non si sa bene per cosa, comunque la nuora, per non sentirlo brontolare, ancora una volta gli rabboccava il bicchiere.
Franchetto assisteva divertito a quella scena insolita. Sghignazzava mentre il vecchio pescava i bocconi di pane ammorbiditi nel vino con la forchettina di corno di bue.
Al contrario, la figlia Noemi, che lo vedeva di rado e non conosceva del tutto le sue stramberie, gli borbottava dicendo che tutto quel bere gli faceva male.
Ma Pippo procedeva nel suo intento e quando nel fondo del boccale non c’erano più tracce di pane, ma solo briciole, allora tutto d’un fiato trangugiava quel beverone rossastro. E, come un attore drammatico, un esperto teatrante, alzando il bicchiere sopra la testa, declamava:
“Bevi Rosmunda nel teschio di tuo padre!”
E tutti, secondo il vecchio bisbetico, avrebbero dovuto fare altrettanto e brindare.
Anche lu frechì era invitato alla libagione; passi per Faffo che già frequentava la seconda media, ma per Franchetto che ancora doveva fare la prima elementare, era ancora troppo presto per il vino.
Allora Noemi, indignata si opponeva alle sue bizzarre richieste; non poteva permettere che il suo bambino di appena cinque anni, partecipasse alla bevuta. A lui era concessa solo l’acqua d’Idrolitina. La bottiglia trasparente con le bollicine in sospensione, al centro della tavola, gli strizzava l’occhio.
Quella fu l’ultima volta che vide nonno Pippo nelle sue fantastiche esibizioni.
La mattina dopo il vecchio non si alzò. Di solito era sempre il primo a mettersi in movimento e a girare per casa: il suo borbottio dava la sveglia a tutti. Quella mattina la porta della sua camera rimase chiusa. Le altre stanze, mute.
Franchetto fece appena in tempo a vederlo, disteso con gli occhi chiusi. Sembrava che dormisse. Fu spedito subito a casa della zia Adriana e del nonno non seppe più nulla.
Ma, a distanza di sessant’anni, ogni tanto nella sua testa echeggiava ancora quella frase:
Bevi Rosmunda. Bevi nel teschio di tuo padre!
© Franco Duranti – luglio 2021