Mentre lei continuava a rovesciarmi addosso i suoi insulti, ero rimasto lì, muto, immobile come paralizzato. Senza il coraggio di controbattere alle sue parole. Non ero riuscito a trovare nessun argomento, o inventare scuse che avessero retto. Invano, cercavo di arrampicarmi sugli specchi e forse mi avrebbe dato un’altra possibilità. Non volevo nemmeno averla un’altra possibilità, forse, volevo soltanto salvarmi la faccia...
Già! La faccia, quella con lei l’avevo persa. Ma insieme a quella, con Laura, avevo perso anche me stesso.
In quella giornata di fine ottobre, caratterizzata da un clima pesante e appiccicoso, ci eravamo dati appuntamento in quel grande parcheggio, alle venti e quindici. Poco prima della chiusura, a quell’ora era buio e non avremmo dato nell’occhio.
Ci lasciammo in malo modo sull’enorme piazzale; ma, ad essere sincero, era stata lei a piantarmi. Ero rimasto in auto; mi aveva mollato, mentre le prime grosse gocce rimbalzavano sul tettino della mia auto, come monetine cadute dall’alto.
Se ne era andata infuriata sbattendo la portiera.
Avevo cercato di fermarla, nel vano tentavo di farmi perdonare. Ancora una volta, cercavo di essere credibile. Ma lei aveva già messo in moto la sua auto e con una manovra repentina in un attimo era fuori dal parcheggio.
Dopo l’afa, e l’aria pesante dell’intera giornata, il tempo era cambiato. I gonfi nuvoloni di piombo che ci avevano accompagnato tutto il pomeriggio, avevano deciso finalmente ad aprirsi e, senza tanti complimenti, avevano rovesciato, in un attimo, abbondanti secchiate d’acqua.
Avevo avuto la sensazione, che quello schianto violento dello sportello sbattuto da lei con rabbia, avesse aperto, improvvisamente, le cataratte del cielo.
Rientrai in auto, e per un attimo rimasi immobile a fissare le gocce che rimbalzavano sul cofano: potevo ritenermi fortunato di essere al riparo e sopravvissuto alle sue ire. Dopotutto, era stata una liberazione: il nostro rapporto era diventato impossibile.
Continuavo a tenere lo sguardo fisso sulla pioggia che scivolava sul parabrezza. La gente disorientata da quel brusco mutamento meteorologico e stava defluendo dal supermercato: arrancava con i carrelli carichi e correva per non bagnarsi.
In pochi secondi, i vetri si erano appannati. Comunque, riuscivo a intravedere le sagome che andavano di fretta per non inzupparsi. Ma ciò che accadeva fuori dall’abitacolo non mi interessava. Potevano anche bagnarsi, o sbattere con i carrelli contro le auto.
Non me ne fregava di nulla!
Le sue ultime parole continuavano a rincorrersi nella mia testa come una sentenza. Mi avevano bollato con quella frase: “Non abbiamo più nulla da dirci. Vai a farti fottere, tu e le tue ammiratrici!”.
“È finita davvero!”, pensai e forse finalmente, ce l’avrei fatta a dare uno strappo a quella storia. Dopo cinque anni era diventato difficile vivere. Ma forse per me lo era sempre stato, vivere.
Tutto era crollato come un castello di carte.
Lo scroscio violento di poco prima all’improvviso era cessato, così, come era sopraggiunto.
Era inutile rimanere lì a pensarci, si stava facendo tardi. Oltretutto avevo appuntamento con Peppe: ci saremmo trovati alle nove al nostro solito ristorante, in collina, per mangiare qualcosa e parlare di noi e dei nostri programmi.
Lui, doveva illustrarmi il suo progetto musicale prima di consegnarlo all’editore; era un lavoro a cui si stava dedicando da diversi anni. Era alla conclusione e voleva parlarne con me prima di consegnarlo- Girai la chiave per mettere in moto e andarmene: mi destò un colpo secco nella parte posteriore dell’auto. Dallo specchietto, intravidi la sagoma di una donna che stava armeggiando con il carrello e con il portellone della sua auto per caricare la spesa.
Ci voleva anche questa, dannazione! Spengo il motore e scendo per verificare il danno.
«Scusi tanto, mi dispiace. Il carrello mi è sfuggito di mano…» Era una giovane donna, credo avesse circa quarant’anni e la sua espressione smarrita mi aveva sorpreso. Certo, non l’aveva fatto apposta, e quasi sicuramente non era nulla di grave, ma dovevo controllare il danno e perdere del tempo prezioso.
Avevo quell’incontro con Peppe e non mi andava di arrivare tardi; se fosse andata per le lunghe, lo avrei avvisato con il cellulare e di sicuro avrebbe capito.
«Accidenti! non ci voleva…» dissi uscendo dall’auto: «ho un po’ di fretta».
Ero ancora infastidito per la scenata di poco prima e le proposi: «Le do una mano a caricare la spesa, poi verifichiamo… qui c’è poca luce. Ci spostiamo là, sotto quel lampione».
La pioggia aveva allentato, solo qualche goccia sporadica ci stava bagnando e il piazzale si stava vuotando velocemente. Il supermercato spegneva le luci.
In fretta, l’aiutai a caricare le cose pesanti: due casse d’acqua minerale e un sacco da cinque chili di crocchette per il gatto. Le piccole buste le aveva riposte lei nell’angolo in fondo del bagagliaio.
Ci spostammo sotto la luce del lampione principale. Secondo me, era un danno da poco, ma comunque l’indomani avrei interpellato il carrozziere.
«Mi lasci il suo numero,» le dissi «domani la chiamo! Sento il mio meccanico, poi le farò sapere».
Io le lasciai i miei dati e annotai i suoi. Le confermai che se l’intervento non fosse stato troppo oneroso, non avremo fatto nemmeno il CID, così avrebbe evitato noie con l’assicurazione. Era d’accordo e prima di andarsene si scusò di nuovo e ci stringemmo la mano.
La sua mano era calda e liscia. Da quel breve e fugace contatto avevo percepito la morbidezza della sua pelle. Dedussi che forse era una professionista o un medico: aveva lasciato una scia di fresco, di pulito, forse di alcol.
Mentre ero in auto e viaggiavo verso la collina, mi convinsi che quell’odore di pulito, poteva essere l’igienizzante che in questo periodo di pandemia siamo costretti ad usare per via del Covid.
Ma era inutile che mi facessi tutte queste congetture. Avevo altro da pensare. Laura mi aveva scaricato e io, in parte, mi sentivo in colpa per non essere stato del tutto leale. Forse doveva andare così.
E cercavo dentro di me la certezza. Quella certezza che nella vita non avevo mai avuto.
Con lei, era diventato un rapporto assurdo. La sua gelosia era diventata asfissiante, mi sentivo mancare l’aria. Lei continuava a ripetermi che non ero in grado di amare.
Dovevo giustificare ogni mossa e, di ogni nuova conoscenza femminile, che non fosse rientrata anche tra le sue, così da poterne accertare la neutralità, doveva esserne a conoscenza; poi, se non riusciva a controllarne l’estraneità, tutto finiva in folli scenate di gelosia.
Come quella sera: continuava a ribadirmi che lei conosceva bene le donne e sapeva quello che cercavano.
A cinquantadue anni, mi vedevo costretto a giustificare ogni mio movimento come un ragazzino che esce di casa per la prima volta.
L’ultima scenata me la fece per la commessa del panificio: solo per il fatto che lei era giovane, carina e di solito mi lasciava da parte il pane integrale ai cereali da 200 grammi. Secondo lei, mi riservava quelle attenzioni perché si era innamorata di me; mentre gli altri clienti, si dovevano accontentare di ciò che rimaneva nello scaffale.
Arrivai al ristorante in collina in leggero ritardo, mi giustificai per il contrattempo. Peppe mi stava aspettando, seduto al tavolo. Aveva già ordinato il vino e stava sorseggiando un Verdicchio Balciana Superiore del 2017. Era il mio preferito. Come se avesse saputo che era quello che mi ci voleva in quel momento.
Me ne versò due dita. Era fresco al punto giusto, lo assaporai nella sua pienezza e mi immersi nel suo bouquet di fiori con un vago sentore di fieno. Quel vino aveva avuto il potere di riconciliarmi con il mondo. E cominciammo a raccontarci.
Gli accennai del piccolo incidente al parcheggio e della scenata di Laura. Lui immaginava che prima o poi sarebbe finita e ci fece una risata, dicendo che era meglio così; non aveva mai avuto una grossa stima per la mia attuale compagna e secondo lui, non era una grave perdita.
In attesa che arrivassero i primi piatti, cominciò ad illustrarmi il suo progetto. Un lavoro importante. Era arrivato alla conclusione della ricerca e ora, dopo aver pubblicato il CD che aveva avuto successo, stava finendo di mettere mano al libro che conteneva tutto il materiale del disco. Aveva fatto un notevole lavoro e di sicuro avrebbe avuto i consensi del pubblico. Gli suggerii solamente di trovare i canali giusti e, che forse un agente musicale lo avrebbe aiutato nella divulgazione completa della sua opera.
Avevamo toccato vari argomenti, durante quella cena, e mi sentivo più tranquillo. Peppe sapeva darmi sempre consigli giusti: come del resto, anche lui, faceva tesoro dei miei.
Come aveva previsto, la mia relazione con Laura avrebbe avuto un epilogo scontato. Una volta, un paio di anni prima ricordo le sue parole, mi avvertì: “Ti sta prosciugando come un foglio di carta assorbente”. Aveva avuto ragione lui.
Nell’ultimo periodo della nostra relazione era diventato impossibile dedicarmi alla scrittura, mi aveva tolto la tranquillità. Cercavo di isolarmi, ma non ce la facevo a scrollarmela di dosso. Avrei dovuto prendere quella decisione e lasciare che si defilasse molto prima. Ma non avevo avuto la forza di farlo e mi ero lasciato trascinare dalle sue assurde ossessioni paranoiche.
Quella sua frase, prima di andarsene: “vai a farti fottere tu e le tue ammiratrici”, sbattendo lo sportello dell’auto, e sparire nella notte, era stata una liberazione. Al momento non l’avevo capito, ma Peppe mi ribadì ancora una volta che quella era l’unica soluzione.
Erano trascorsi più di due anni dalla pubblicazione del mio ultimo romanzo. Non ce la facevo più a inventare storie: mi aveva inaridito e glielo lasciavo fare. Ero come un fiume che si era imploso. Improvvisamente ero diventato sterile. Sul fondo di quel fiume riarso dal sole, emergevano solo crepe che si stavano allargando sempre di più.
Ero stato in balia di lei per troppo tempo.
Peppe mi consigliò che avrei dovuto ricominciare a scrivere racconti, inventarne di nuovi. Ripartire da lì: dall’incidente che avevo avuto quella sera. Creare una nuova storia partendo da quella donna che mi aveva ammaccato l’auto al parcheggio del supermercato.
«Come si chiama la tipa?» mi chiese.
Lo guardai divertito ed estrassi dalla tasca il foglio dove mi ero appuntato i suoi dati:
«Pensi sia importate saperlo?» e proseguii: «si chiama Ludovica Beltrami, ha trent’otto anni ed è consulente finanziaria…»
Aggiunsi, che oltretutto era una bella donna e l’indomani l’avrei risentita per comunicarle l’entità del danno. Mi stavo accorgendo che, come per magia, mi si stava aprendo la mente. Aveva ragione lui, dovevo buttarmi tutto alle spalle e ricominciare da quel piccolo inconveniente. Iniziare da lì. Inventare una storia, e mentre mi spronava a farlo, io ero già partito e sentivo che si stava delineando.
Avevo tirato un filo e la trama si stava formando. Più tiravo quel filo e più il tessuto si intrecciava assumendo disegni e nuovi colori.
La mattina dopo, alle sette e trenta, ero in giardino in compagnia del mio computer. Era rimasto inattivo da troppo tempo. L’avevo acceso e, pigiando sui tasti, sul monitor si stavano fissavano le prime parole, mentre le mie dita arrugginite avevano ripreso a scorrere lente sulla tastiera.
© Franco Duranti - maggio 2021