Quel venerdì aveva deciso di prendere una giornata di ferie e per non avere noie aveva staccato anche il cellulare. Oltretutto in centrale, dopo il caso di quel tipo fuori di testa che aveva sparato sugli extra comunitari, non c’erano stati altri episodi degni di rilievo. I soliti furti d’appartamento con scasso, qualche lite tra ubriachi e Khalid, lo spacciatore marocchino, beccato per la quarta volta, ma ancora a piede libero.

     La moglie lo chiamò dalla finestra della cucina che si affacciava sul giardino: lo volevano al telefono, mentre lui, Marinozzi, stava innaffiando beatamente le sue rose gialle in piena fioritura. Dal tono imperioso della signora Luigina, capì subito che quel momento di pace sarebbe finito presto. Giulio, l’aveva pregata di dire che non era in casa, ma il vice ispettore Filippetti, conoscendo il suo capo, aveva insistito. Si era anche scusato per l’insistenza e aveva sottolineato che gli dispiaceva di interromperlo nel suo hobby, però aveva bisogno di parlare subito con lui e aveva aggiunto che si trattava di una questione URGENTISSIMA.

     Il PM lo stava cercando.   

     Il commissario Marinozzi controvoglia si asciugò le mani sulla tuta. Chiuse il rubinetto e appoggiò il tubo sul bordo dell’aiuola; tutto intorno le gazanie erano esplose in una fioritura anticipata, pennellando il giardino di un arancio sfolgorante.

     Aveva capito. Purtroppo, la tranquillità tra i suoi fiori si era dissolta.

     Senza nascondere il suo disappunto rispose con tono deciso, anzi scazzato: «Pronto? Chi parla?» Dall’altro capo del filo, la voce concitata del vice ispettore Filippetti cercava di spiegare quello che era successo. Aveva solo capito che era stato rinvenuto il corpo del giovane editore Pietro Derisi, sepolto da una valanga di libri. E il PM, Dott. Lucantoni, a causa di un imprevisto, non era potuto essere in loco e lo stava cercando affannosamente.

     Giulio provò a prendere tempo, avrebbero affrontato la questione il lunedì, ma alla fine come al solito aveva ceduto. Non se la sentiva di rimandare le indagini e magari comprometterle per la poca esperienza di un suo sostituto. Amava i suoi fiori, ma il lavoro aveva la priorità su tutto. Era la sua vita.

     Giunto sul posto, la Scientifica stava già facendo i rilevi e tutto intorno era stato transennato con il nastro bianco e rosso. L’autoambulanza era arrivata da poco e gli infermieri aspettavano il permesso del PM che tardava ad arrivare. Il reparto investigativo procedeva alacremente nel suo lavoro, con la solita professionalità: le impronte digitali erano già state rilevate in tutte le stanze. Anche nel ripostiglio. Ma finché il PM non si vedeva non era possibile spostare nulla.  

     Il commissario si fece largo tra i curiosi che sostavano fuori dalla palazzina. Dovevano stare alla larga, anche se alcuni di loro abitavano nel palazzo e volevano salire. Gli agenti non sapevano che fare, aspettavano l’arrivo del commissario e del PM.  

     Anche il vice ispettore Filippetti, sull’arco del portone lo stava aspettando.

     A lato dell’ingresso, una targa di ottone recitava: “CASA EDITRICE DERISI – Poesia – Narrativa – Saggistica”

     «Che idea ti sei fatto?» chiese il commissario Marinozzi mentre si faceva largo per entrare. Filippetti non rispose subito. Non voleva esporre le sue impressioni ai curiosi ammassati all’ingresso. Gli fece strada per le scale fino all’ufficio. L’appartamento era al secondo piano, dove un agente in divisa piantonava l’ingresso.

     La stanza era sottosopra, sembrava ci fosse stato un bombardamento o un terremoto. La libreria in noce, alta circa tre metri che rivestiva tutta la larghezza della parete, era crollata addosso alla scrivania. Sotto una montagna di volumi, si riusciva ad intravedere la sagoma di un uomo che, a detta della sua collaboratrice in lacrime, sembrava appartenere a Pietro Derisi, l’editore.

     «Brutta storia…» rispose Filippetti, grattandosi la folta barba scura. «…non riesco a spiegarmi come sia potuta crollare… povero Pietro!»

     «Lo conoscevi?»

     «Sì commissario. Abbiamo fatto le medie insieme, era un bravo ragazzo; aveva fondato questa casa editrice con tanto entusiasmo.»

     «Se ha la tua età, non è proprio un ragazzo… sbaglio?»

     «Sì, ha ragione, a quarantacinque anni non si è più di primo pelo. Però a volte capitava d’incontrarci, per un aperitivo al bar delle Logge» e proseguì: «era così soddisfatto e, pur essendo una piccola realtà editoriale, si era ritagliato un posto importante nel panorama letterario. Dopo alcuni anni trascorsi con mansioni di direttore con un editore di Ancona, aveva deciso di fare il salto nel vuoto e crearne una tutta sua. Nonostante la crisi di lettori, sembrava gli andasse bene!»

     Il vice ispettore continuava a raccontare. Era rimasto sconcertato per la fine del suo amico e da quel pandemonio di volumi crollati. Libri di tutti i tipi, ma soprattutto edizioni pregiate con rilegatura in pelle e incisioni in oro. Intere collane di narrativa straniera, ma soprattutto edizioni rare di poesia in lingua inglese. Il commissario ascoltava il suo sottoposto e continuava a guardarsi intorno.

     «Chi ti ha avvisato?»

     «La segretaria. Quando è arrivata stamattina alle nove ha trovato tutto questo casino!»

     «Adesso dov’è, vorrei scambiare due parole con lei»

     «L’ho fatta allontanare, era piuttosto provata. Continuava a piagnucolare… ora dovrebbe essere di sotto, se non è andata via. Se vuole gliela vado a cercare.»

     «Grazie, vedi di rintracciare anche gli altri collaboratori.»

     Filippetti uscì dall’ufficio e per le scale s’imbatté con il PM: era trafelato come avesse fatto una corsa in salita e gli chiese se Marinozzi fosse arrivato.

     Il commissario, sul posto, stava osservando la parete e controllava minuziosamente il punto dove le staffe di ancoraggio avevano ceduto. Le viti che sorreggevano la struttura erano state rimosse, però aveva notato che i tappi Fischer erano ancora nel loro foro. Per cui aveva dedotto che, una volta che le viti erano state rimosse, di sicuro la libreria aveva perso la stabilità. E, forse l’editore in cima alla scala pieghevole, nell’intento di sfilare un libro, ha perso l’equilibrio; a questo punto, per non cadere, si era sorretto al montante della libreria che gli era crollata addosso facendogli fare la fine del topo.  

     «Buongiorno commissario, che mi dice?»

     Il Dott. Lucantoni, in notevole ritardo, si presentò come fosse venuto a fare una visita di cortesia: mentre Marinozzi, chino sul pavimento, stava ancora controllando minuziosamente i fianchi della libreria. Da sotto quella catasta di volumi ammassati, si intravedeva la scala pieghevole e una gamba del povero Derisi.

     «Buongiorno dottore! Un brutto affare…, di sicuro non è stata una disgrazia» e precisò: «qualcuno ha manomesso le viti e ha voluto che ciò accadesse».

     Si alzò scrollandosi di dosso la polvere dai pantaloni e si avvicinò al magistrato per stringergli la mano.

     Il dottore Lucantoni non gli era molto simpatico: aveva nei suoi confronti sempre quell’aria di supponenza, come se da dietro la sua scrivania sapesse sempre la verità di ogni indagine. Non amava alzare il culo da quella poltrona… ma purtroppo, era lui che aveva in mano le indagini. E il commissario già immaginava che avrebbe avuto da ridire e infatti gli chiese:

     «È sicuro di quello che dice? Mi sembra che lei voglia giungere a conclusioni troppo affrettate!»

     Il fatto di essere rientrato in anticipo dalle ferie e di aver dovuto abbandonare le sue rose, lo aveva fatto incazzare. E ora ci si metteva anche lui. Però si era ripromesso di mantenere la calma e, raschiando dal fondo delle sue viscere tutta la pazienza residua, con il dovuto garbo che si riserva a un superiore, gli illustrò quello che aveva dedotto. Cioè: il crollo non era stato affatto casuale, ma provocato, e chi aveva allentato le viti di ancoraggio, senza dubbio voleva colpire. Di sicuro doveva essere stato qualcuno che frequentava la redazione e aveva libertà di movimento, però le indagini vere e proprie, dovevano ancora cominciare e c’era da rimuovere il cadavere.

     Quindi Marinozzi concluse la sua disamina dicendo: «Dottore, la squadra ha finito con i rilievi e le foto e se Lei mi dà il permesso, facciamo rimuovere il cadavere e provvediamo con le ultime perizie.»

     «Va bene commissario, prosegua pure, però mi raccomando, voglio essere informato di ogni novità. Buon lavoro… ah, dimenticavo! Mi dispiace che abbia dovuto interrompere le ferie e abbandonare le sue amate rose…»

     «Non dubiti, la terrò informato!  …che ci posso fare. Vuol dire che le mie rose aspetteranno!» 

     Il dott. Lucantoni sembrava avere fretta, rimase lì solo una decina di minuti, ma per il commissario poteva già bastare. Non amava molto vederselo tra i piedi, e prima di andarsene, il magistrato fece la sua solita battuta spiritosa e concluse la visita dicendo: «… e se son rose fioriranno, commissario!»

     Marinozzi non apprezzò affatto la sua ironia, era tentato di mandarlo a quel paese.

     Di sotto, giù all’ingresso della palazzina, la folla di curiosi era aumentata e confabulava cercando di carpire qualche notizia. Lì, il dottor Lucantoni incontrò il vice ispettore Filippetti che stava salendo con una giovane donna e lo salutò: «Buongiorno dottore, se ne va di già?» E aggiunse: «Accompagno la signorina Tania dal commissario, è una collaboratrice dell’editore.»

     «Bene, bene… glielo ricordi anche lei a Marinozzi di tenermi informato!»

     «Certo, non dubiti dottore!»

     Gli agenti avevano già iniziato a raccogliere i libri sparsi e li stavano accatastando nella stanza attigua. Tania, appena entrò nell’ufficio, scoppiò di nuovo in lacrime: il corpo di Derisi, riverso sul pavimento, non era stato ancora coperto dal lenzuolo.

     «Ma com’è potuto succedere? Povero Pietro, i libri erano la sua vita.» disse asciugandosi il viso con il dorso della mano. Filippetti le allungò un Kleenex. «Grazie! Stamattina non dovevamo lavorare, ma avevo appuntamento con lui per…»

     «Buongiorno signorina! Sono il commissario Marinozzi, adesso si calmi. Poi mi racconterà… la vedo confusa!»

     La sbirciò con la coda dell’occhio. Quando aveva qualcuno davanti, era solito fargli la radiografia e quella giovane donna, alta quasi uno e ottanta e con due gambe lunghe come una giocatrice di volley, lo intrigava. Il viso era truccato: le labbra carnose dipinte con cura di rosso carminio. Il mascara liquefatto dal pianto, però non sminuiva però il suo fascino. I capelli neri e lisci le ricadevano sul collo, fino alle spalle, incorniciando il bel volto. E il primo pensiero che gli balenò fu che forse, il Derisi fosse qualcosa di più per quella giovane donna.

     La fece accomodare nella stanza comunicante con l’ufficio dove era avvenuto il crollo.

     «Va meglio adesso? Posso chiederle quando l’ha visto l’ultima volta?»

     «Sì, sì grazie… va meglio, ma com’è stato possibile?» disse soffiandosi il naso.

     «Questo vedremo di scoprirlo, adesso però la prego, risponda alle mie domande, se ce la fa. Il mio non è un interrogatorio, sto solo cercando di mettere un po’ d’ordine a tutto questo casino… quindi, se non le costa troppa fatica, mi risponda».

     «Sì, mi scusi, ma ancora non posso crederci. Ieri sera quando sono uscita, mancavano dieci minuti alle otto, lui era ancora lì, alla sua scrivania. Mi aveva chiesto se stamattina potevo fare un salto in ufficio per spedire alcune mail d’invito per la presentazione di un nuovo autore. Sono arrivata alle nove ed ho visto...»

     «Da quanto tempo lavora per la casa editrice?»

     «Da appena sei mesi, ma mi sono subito trovata bene. È un bell’ambiente e andiamo tutti d’accordo, i colleghi sono simpatici e disponibili.»

     «Oltre a lei, chi è che collabora con la casa editrice?»

     «Siamo in cinque, cioè eravamo…»

     «Gli altri, mi dica i nomi degli altri… e chi ha le chiavi dell’ufficio per entrare.»

     «Orfeo Vissani, un giovane poeta di venticinque anni con mansioni di correttore di bozze. Leone Giorgi, anche lui laureato in lettere e filosofia, come Orfeo e si occupa di editing formale. Poi c’è Max Santori, il grafico: cura le copertine e l’impaginazione delle pubblicazioni. Lui però non ha le chiavi, lavora a chiamata,»

     Pronunciando quel nome si irrigidì e cambiò espressione del viso: il commissario lo notò. Poi riprese a raccontare: «quelle, le chiavi, le abbiamo solo noi tre, più ovviamente Pietro.» E di nuovo una lacrima le rigò la gota. Marinozzi notò, che quella ragazza si emozionava con troppa facilità. Tutto quel turbamento le sembrava eccessivo… forse tra loro c’era veramente qualcosa di più intimo che non il semplice rapporto di lavoro.

     «Lei si occupa solo di mansioni di segreteria, oppure anche di altro?»

     «No, mi occupo anche dell’organizzazione di eventi e di editing strutturale: sono fresca di laurea in lettere moderne. Pietro mi ha proposto di collaborare con lui. Mi sono trovata subito a mio agio, e sono presto entrata in sintonia.»

     «Grazie, per adesso può bastare così. È sufficiente, può andare… se ho bisogno ancora di lei, la convocherò di nuovo.»

     Il commissario chiamò Filippetti e la fece accompagnare fuori. Quando Tania attraversò la stanza, il corpo era stato coperto dal lenzuolo, in attesa di essere portato via per l’autopsia. Per le scale, il vice ispettore dovette sorreggerla. La vista della salma le procurò un lieve mancamento e si appoggiò al suo braccio.

     «Su signorina, stia su! Adesso andiamo al bar e prendiamo un caffè, poi, magari andrà meglio…»

     Tania lo ringraziò e accettò volentieri. Aveva proprio bisogno di qualcosa che la sostenesse, adesso che Pietro Derisi era uscito dalla sua vita. Il bar Aurora, con quelle belle giornate di piena primavera, aveva approfittato per mettere i tavoli lungo il marciapiede e i due caffè furono serviti lì, all’aperto.

    

     Orfeo Vissani era appena arrivato e stava aspettando in corridoio per essere convocato. Filippetti avvisò il commissario.

     «Fallo entrare!» disse Marinozzi, mentre stava scartabellando il fascicolo con le fotografie della scena e gli appunti degli interrogatori.

     Dalle precedenti dichiarazioni non era ancora emerso nulla di anomalo. I testimoni avevano illustrato l’ambiente della casa editrice come un’oasi di pace. Non c’erano stati screzi o situazioni che avessero portato a conflitti. Sì, magari qualche discussione con per un ritardo nelle pubblicazioni. Oppure qualche incomprensione con gli autori di prosa per essersi visti troncare un pezzo del proprio romanzo giudicato troppo prolisso, o per aver dovuto riscrivere interi capitoli. Ma nulla di importante, poi tutto si era appianato.

     Il commissario aveva appurato che nella pubblicazione di sillogi poetiche, - linea di punta della casa editrice - non c’erano mai stati problemi. In effetti le opere non venivano mai messe in discussione; se la casa editrice aveva deciso di inserire in catalogo un poeta, i suoi versi non venivano mai modificati e rimanevano tali e quali a come li aveva composti.

     «Buongiorno, si accomodi pure, dunque lei è Vissani…» disse anche se già sapeva chi fosse e di cosa si occupasse. E aggiunse: «Qual è il suo ruolo all’interno della casa editrice?» Il giovane si accomodò. La scrivania del commissario era coperta di scartoffie e cartelle sparse. La testa glabra del commissario sbucava tra due pile di fascicoli. La prima impressione che il poeta ebbe, fu quella di trovarsi nello studio di un azzeccagarbugli. L’ufficio non era certo un esempio di precisione e compostezza.

     «Mi occupo della revisione delle bozze…» e continuò: «il mio lavoro consiste nello scovare, all’interno del testo, errori di ortografia e sintassi, cercare di uniformare lo stile e dare una forma migliore allo scritto che giunge poi in redazione.»

     «Ho capito, ma questo lavoro viene fatto con tutti i testi, oppure capita che questa revisione salti? cioè mi spiego meglio: se la casa editrice propone delle correzioni, poi queste devono essere approvate dall’autore o sbaglio?»

     «Certo. La casa editrice prima di apportare qualsiasi modifica chiede l’approvazione dell’autore, poi si procede con gli altri editing più approfonditi.»       

     «Ma se ciò che viene approvato dall’autore poi non viene eseguito? è mai capitato che, in fase di pubblicazione gli errori, i refusi approvati dall’autore, poi si riscontrino comunque nell’opera pubblicata?»

     «In realtà non dovrebbe accadere…»

     «Ma io le sto chiedendo se è mai capitato questo inconveniente. Ci pensi bene e non mi risponda frettolosamente. È importante!»

     «In effetti, che io ricordi, è successo un paio di volte da quando lavoro qui!»

     «Da quanto tempo lavora alla casa editrice?»

     «È quasi un anno,» e continuò: «si è verificato una volta, poco dopo il mio arrivo.»

     «E quindi? Il nome… si ricorda il nome?»

     «Elvio Bissotti, un autore di narrativa. Ha pubblicato con noi un solo romanzo»

     «Mi diceva che era capitato due volte, e come si chiamava l’altro scrittore?»

     «Io ancora non lavoravo nella casa editrice. Ma ne ho sentito parlare, era un’autrice.»

     «Il nome, immagino lo sappia, vero»?

     «Certo, si chiama Pinuccia Marchi, una ricercatrice. Ha scritto un libro sulla civiltà Maja»

     «Un’ultima cosa volevo chiederle: questi autori hanno più fatto altre pubblicazioni con la Derisi?» Mentre stava chiedendo questo, il commissario Giulio Marinozzi ebbe quasi una folgorazione, aveva capito di essere sulla buona strada.

     «La Marchi, non l’ho mai conosciuta di persona, dopo il fatto increscioso non si è più vista in redazione. Bissotti invece ogni tanto partecipava alle nostre manifestazioni letterarie. Avevo saputo da Pietro che aveva intenzione di pubblicare un altro romanzo e voleva sottoporlo alla redazione per un giudizio, ma non vi è mai giunto, che io sappia.»

     «Va bene, grazie, adesso può bastare. Se ho ancora bisogno di lei la chiamerò» e aggiunse: «ah! un’ultima cosa… è una mia semplice curiosità, e non c’entra nulla con le indagini. Tra la signorina Tania e Derisi c’era qualcosa di più che un semplice rapporto di lavoro?» E gli mostrò la foto della salma. Il volto del suo titolare era tumefatto e sanguinante, Vissani si appoggiò alla scrivania come per non cadere. Il commissario si accorse del suo improvviso pallore, quell’immagine lo aveva turbato. Comunque il giovane gli confermò che più di una volta i due fossero stati visti insieme a cena. Poi disse, che era capitato anche a lui di prendere un caffè al bar Centrale con Tania e magari mangiare qualcosa in un locale e discutere di lavoro… dopotutto tra colleghi poteva capitare di andare a cena insieme, o no?

     Marinozzi chiamò Filippetti e gli chiese di rintracciare anche lo scrittore Elvio Bissotti.

     «Sì commissario, ho già tutti i numeri di telefono degli autori. Poi se le fa piacere, ho cominciato anche a rilevare le impronte. Ho fatto prendere anche quelle di Tania… per le sue, ho dovuto intascarmi la tazzina di caffè, giù al bar di sotto!»

     «Vedo che cominci a capire come si fanno le indagini, come li hai avuti, gli indirizzi?»

     «Ecco guardi! Erano annotati nella rubrica, nel cassetto della scrivania di Tania. Ci sono vari nominativi.»

     «Bravo! Come al solito non ti fai i cazzi tuoi, - lo sai che scherzo! - comunque un buon investigatore non se li deve mai fare mai i cazzi suoi.  A proposito, sai nulla della signorina Tania? Pare, dico pare… sia stata vista più volte insieme all’editore in qualche ristorante di Porto Recanati.»

     «È vero, li ho visti anch’io, quindici giorni fa alla Batana. Ero con mia moglie, abbiamo festeggiato il nostro quinto anniversario di matrimonio.»

     «Primo, mi fai rimangiare quello che ho detto poco fa. Perché non me lo hai riferito subito. C’è di mezzo un morto e tu non mi dici che li hai visti insieme?»

     «Pensavo non fosse importante. Però adesso che ci penso, li ho visti in atteggiamenti… direi intimi. Si può dire così?»

     «E certo che si può dire! Che atteggiamento era? Si baciavano, si tenevano per mano, si facevano carezze…? Cosa aspetti a farmelo sapere? Ho bisogno di riparlare con lei. Dai, vedi di convocarla in commissariato per domattina, alle undici.»

     «Ok però, non s’incazzi. Prima mi dice che un buon investigatore non si deve fare i cazzi suoi, poi mi fa una scenata perché mi sono dimenticato di una cosa… Sì, si tenevano per mano, ma non credo che Tania mi abbia visto, altrimenti l’altro giorno al bar… no. Niente!»

     «Primo, che vuol dire “no, niente”. Me lo spieghi?»

     «Ripensavo a venerdì, il giorno in cui Tania ha scoperto il fatto! Era sconvolta per la morte di Pietro. Adesso capisco il perché di tutte di quelle lacrime…»

     «E ci vuole tanto a capirlo!?»

     «Quindi lei pensa che Tania non sia tra i sospettati.»

     «Certo, che no! Come ti viene in mente un’idiozia simile? Non è da te, Primo… non è da te!» e aggiunse: «Però la signorina Tania, se è vero che frequentava l’editore, dovrebbe sapere molte cose. Poi, se andavano a letto insieme, noi non lo sappiamo e non ci interessa: magari si era pure innamorata… ma non penso sia importante. Quindi, mio caro Primo, è da lei che dobbiamo partire per sviluppare le indagini.»

     Il commissario doveva ancora sentire il grafico e gli disse di convocarlo per l’indomani mattina e che per oggi poteva bastare.

     Prima di tornare a casa, la moglie lo aveva chiamato al cellulare e gli aveva ricordato che le serviva una scatola di lumachicida per l’orto. Le lumache si stavano mangiando tutta l’insalata e la valeriana che lei aveva piantato.

     «Primo, mi convochi anche il grafico… come hai detto che si chiama?»

     «Max Sartori… ora lo rintraccio. A che ora vuole vederlo?»

     «Domattina, alle nove in punto, poi ricordati di convocare anche la signorina Tania per le undici… sa troppe cose!» Poi si ricordò che doveva sentire ancora l’altro collaboratore e aggiunse: «Vedi di fissarmi anche un appuntamento con Leone Giorgi. Di sicuro, avrà qualcosa d’interessante da suggerirci come il suo collega Orfeo.»

     Arrivò a casa in anticipo. La moglie era inginocchiata nell’orto e stava togliendo la mala erba che infestava le sue coltivazioni domestiche. Giulio le si avvicinò e le porse la scatola che gli aveva commissionato.

     «Ciao Luigina, non ti lamentare delle ginocchia, se poi ti fanno male! Ecco qua, è un’altra marca, ma il venditore mi ha detto che ha la stessa funzione dell’altra.»  Si avvicinò e le stampò un bacio sulla guancia.

     «Grazie, ti sei ricordato, altrimenti l’insalata se la mangiano tutta loro, quelle maledette!» E chiese: «Come è andata con la storia dell’editore? Era molto noto in città, anche la cassiera del supermercato ne parlava oggi. Ha detto che lo conosceva.»

     «Quella è una gran chiacchierona, sa sempre tutto… va a finire che la faccio schedare tra gli informatori della Questura».

     Il commissario non aveva voglia di parlarne, s’infilò la tuta verde e i guanti. Afferrò le cesoie e si nascose tra le sue rose gialle. Con tagli precisi, eliminava i rami improduttivi e spruzzava l’antiparassitario, ma continuava a pensare a Tania. Più passava il tempo e più era convinto che le indagini dovessero partire da lì. Quella giovane doveva sapere troppe cose.

Max Sartori alle nove meno cinque era in corridoio, in attesa di essere sentito. Il commissario, pur sapendo che era arrivato, lo fece attendere un buon quarto d’ora. Quella era la sua tattica. Sfiancare i testimoni: poi quando erano lì, di solito, abbastanza snervati dall’attesa, poteva giocarseli come meglio credeva.

     Marinozzi stava confidando i suoi sospetti a Filippetti che aveva la scrivania proprio di fronte alla sua.

     «Fallo entrare!»  gli ordinò.

     Primo si alzò e andò in corridoio: il teste era appoggiato al muro.        

     «Prego, si accomodi Sartori.»

     «Buongiorno, sono Max, il grafico della casa editrice» disse porgendogli la mano ossequioso.

     Il commissario lo sbirciò con un certo interesse, misto a curiosità. Tutti quei capelli arruffati in testa, il piercing alla narice destra e il cerchio d’oro nel lobo sinistro, lo fecero sorridere. Max se ne accorse, ormai non ci faceva più caso se qualcuno notava le sue stravaganze.

     «Buongiorno, si sieda. Volevo avere solo qualche chiarimento, faremo presto. Veniamo subito al dunque: è molto che collabora con Derisi?»

     «Sono circa due anni, credo di essere il più vecchio in quell’ufficio!»

     «Perché, quanti anni ha?»

     «Ne ho trentacinque, ma io intendevo più vecchio come anzianità di servizio, come esperienza.»

     «Quindi conosce un sacco di gente! Mi riferisco agli autori, scrittori, poeti… quelli che gravitano nel mondo della letteratura»

     «Beh! Sì, praticamente tutti gli autori che hanno pubblicato con noi. Sa, a volte vengono in redazione per chiedere e mi danno pure suggerimenti. Vengono qui e credono di sapere tutto di grafica.»

     «Dopodiché lei che fa, li ascolta oppure…?»

     «Quando vedo che non riesco più a frenarli, li dirotto da Derisi. È lui il capo. Anzi, era...»

     «Chi è l’ultimo autore che ha visto in sede? Si ricorda, la settimana che è accaduto il fatto?»

     «Mi faccia pensare un momento, mi sembra che quella settimana fosse venuto… era martedì, sono sicuro perché sono uscito alle diciotto e trenta. Avevo una partita di calcetto, un’amichevole tra amici: mi serve per muovermi. Tutto il giorno davanti al computer…» e aggiunse: «Sì, sono più che certo: Elvio Bissotti, solo lui c’è stato. Aveva un nuovo manoscritto da sottoporre a Derisi, ma lui era andato a Perugia e non era ancora tornato. La settimana scorsa, anche Leone e Orfeo erano fuori per organizzare delle presentazioni. Solo Tania ed io eravamo in sede. Bissotti mi aveva chiesto un parere sulla grafica della copertina. Ma era complicato decidere, lì per lì su due piedi. Poi, i titoli che aveva proposto secondo me, erano improponibili! Gli confermai che per quelli, di solito, sono i ragazzi della redazione o Pietro che decidono. Mentre io mi occupo solo dell’impaginazione e della veste grafica.»

     «Che titoli avevano, se li ricorda?»

     «Me ne aveva sparati un paio… “Amplesso complesso” e un altro simile, mi pare “Sesso complesso”, ma entrambi secondo me facevano schifo. Non so poi come sia andata a finire. Non ho saputo più niente.»

     «Va bene, signor Sartori, è sufficiente per ora, se ho bisogno ancora di lei le farò sapere. Può andare.»

     Il grafico salutò e uscì arruffandosi la folta capigliatura riccioluta: sembrava avere in testa un nido di cicogna in cima ad un comignolo.

     Nel corridoio Tania era in anticipo e stava aspettando per essere ascoltata. I due colleghi si scambiarono un saluto veloce, come se volessero evitare di incrociare i loro sguardi.

     Filippetti la invitò ad entrare.

     «Prego signorina! Venga pure, il commissario la sta aspettando!»

     Marinozzi appuntava sul blocco le informazioni del colloquio appena concluso. Sartori era stato molto preciso, ma gli mancavano ancora i risultati dei rilievi delle sue impronte. Con ogni probabilità però, era riuscito a carpirle mentre gli mostrava la foto dell’ufficio sottosopra. Lì aveva lasciato le sue tracce, ma ce n’erano ancora altre da decifrare e molte erano confuse. A questo punto bisognava andare alla ricerca di quelle dei collaboratori. Quelle della giovane Tania erano state già rilevate da Filippetti.

     Il commissario la fece accomodare, sembrava più distesa della volta precedente. Dopotutto, il suo stato era comprensibile: era stata lei la prima a scoprire l’omicidio. La reazione emotiva era giustificata dal fatto che tra loro ci fosse del tenero. Per il momento decise di non indagare in quella direzione, era certo che quella linea non avrebbe dato i risultati sperati. L’unica direzione da seguire doveva essere rivolta verso chi aveva manomesso le staffe di sostegno; chi aveva eseguito quel lavoro, di certo l’aveva fatto con l’intenzione di uccidere.

     Chiunque però sarebbe potuto finire schiacciato: Tania, Leone, oppure Orfeo o Max. Qualsiasi persona che frequentava l’ufficio e si fosse arrampicata su quella scala, e avesse perso l’equilibrio nell’atto di sostenersi alla scaffalatura, avrebbe potuto fare quella misera fine.

     «Buongiorno signorina, va un po’ meglio oggi?» le chiese, cercando di metterla a suo agio. Aveva ancora molte cose da chiarire e non voleva che lei si irrigidisse.

     «Sì, grazie! Ma ancora non riesco a capire…»

     «Ancora neanche noi, ma stiamo facendo di tutto per scoprire la verità. Adesso mi dovrebbe confermare un paio di cose… Senta, una domanda precisa: c’è stata qualche persona, che non fosse una della redazione, che sia rimasta da sola negli uffici?»

     «Lunedì della scorsa settimana c’è stato l’idraulico. La cassetta del WC perdeva acqua in continuazione. L’ho lasciato solo per alcuni minuti: sono uscita perché dovevo ritirare un pacco all’ufficio postale qui di fronte, ma sono stata via cinque minuti. Quando sono tornata, lui ancora armeggiava in bagno, ha cambiato il galleggiante e se n’è andato poco dopo.»

     «Martedì, si ricorda di martedì? ci pensi bene!»

     «Quel giorno ricordo che Pietro era andato a Perugia. La mattina aveva un incontro con suo amico, un piccolo editore. Poi sarebbe rientrato il pomeriggio verso le diciotto. Aveva un appuntamento con Elvio Bissotti per un nuovo romanzo da pubblicare. Quindi quel giorno in ufficio eravamo solo io e Max: lui doveva finire d’impaginare una silloge poetica di un nuovo autore.»

     «Perciò lei l’ha visto Bissotti quando è stato in redazione, o sbaglio?»

     «In effetti, anche se sono stata quasi sempre in ufficio, io non l’ho visto… ci ho solo parlato per telefono. Pietro mi aveva chiamato dicendomi che stava tardando per un incidente in galleria, prima di Fabriano, e il traffico era fermo. Quindi dovevo avvisare Bissotti per rimandare l’incontro.»

     «Lo ha avvisato Bissotti?»

     «Certo, ma era già arrivato da poco in ufficio e c’era Max con lui. Gli ho detto che l’incontro con Derisi era stato rimandato in data da destinarsi.»

     «Quindi lei signorina non l’ha visto Bissotti, ci ha solo parlato, o sbaglio?»

     «No, non l’ho visto… e dal tono della voce mi era sembrato arrabbiato che Pietro gli avesse dato buca. In effetti, dopo i problemi che c’erano stati con il suo ultimo romanzo, Pietro cercava di evitarlo.»

     «Lei lo sapeva che aveva un appuntamento e sarebbe venuto?»

     «Sì, certo! Pietro mi aveva avvisato, aveva detto che sarebbe passato quel rompicoglioni, proprio così mi aveva detto! Però poco prima che lui arrivasse, ero uscita per una consegna urgente. Mi aveva chiamato la libreria Universitaria, aveva terminato alcuni titoli e mi aveva pregato di consegnarglieli subito. Un cliente stava aspettando… così ho fatto un salto in negozio, in centro. Ci ho messo più del previsto, non riuscivo a trovare un parcheggio.»

     «Perché lo ha chiamato rompicoglioni?»

     «C’erano stati dei problemi con il suo romanzo… in pratica, nonostante fosse stato fatto un primo accurato lavoro di editing, alcune correzioni purtroppo erano saltate e, in fase di edizione il romanzo era uscito con alcuni errori, anche grossolani. Sebbene Bissotti lo avesse approvato con il VISTO SI STAMPI, però senza però leggere ciò che doveva essere modificato. Il lavoro alla fine era stato stampato con inesattezze che non dovevano esserci. Insomma, era uscito un bel casino!»

     «Come è andata a finire, suppongo per vie legali! Quello che è successo è grave o sbaglio?»

     «Beh, sì è grave. Però Pietro, era riuscito a trovare un compromesso e la prima edizione del romanzo era uscita così…»

     «Immagino che il Bissotti si sia arrabbiato molto per questo inconveniente!»

     «Beh, sì! In effetti in quel periodo eravamo tutti molto preoccupati e coinvolti per quel guaio. Una grossa fetta di responsabilità era anche nostra che avevamo curato la revisione e, se la cosa non fosse stata insabbiata da Pietro, sarebbe stato un grosso danno per la casa editrice.»

     «Questo fatto quando è avvenuto?»

     «Ero arrivata da poco in redazione: è stato il mio primo impatto con il mondo dell’editoria.»

     «Quindi il putiferio è stato circa sei mesi fa.»

     «Esatto.»

     «Un’altra cosa, un’ultima cosa. Quando lei ha parlato con Bissotti, dicendogli che l’appuntamento era saltato per il contrattempo di Derisi, dopo è tornata in ufficio?»

     «Sì, certo. Sono tornata a controllare che tutto fosse in ordine, ma non c’era più nessuno Ho spento tutte le luci e sono andata a casa.»

     «Che ora era quando è uscita dalla redazione?

     «Mancavano dieci minuti alle otto»

     «…e non c’era più nessuno?»

     «No, commissario. Max mi aveva detto che sarebbe andato via prima, perché aveva una partita di calcetto.»

     Il commissario decise che per il momento poteva bastare. La ringraziò e la congedò pregandola di tenersi a disposizione. Il commissario invitò Filippetti ad accompagnarla e lui prima di salutarla sull’arco della porta, con nonchalance le chiese: «Signorina, mi tolga una curiosità… quindici giorni fa era lei alla Batana? Ero lì a cena con mia moglie per festeggiare il nostro anniversario… di sfuggita ho visto Pietro con una giovane donna. Adesso mi chiedevo se fosse lei.»

     «Sì, a volte ci capitava di cenare insieme. Ma io non l’ho vista!»

     «Beh! Lei non mi conosceva ancora, però io a Pietro lo conoscevo bene. Non si è accorto nemmeno lui… e credo sia l’ultima volta che l’ho visto. Ma non è importante. Arrivederci signorina!»

     Lei non diede importanza all’osservazione del vice ispettore, dopotutto non aveva nulla da nascondere, né al commissario, né tantomeno a lui. Non era certo proibito andare a cena con il titolare. Poi, a Pietro piaceva farsi vedere con lei: ci faceva una bella figura. E a Tania quell’uomo maturo e acculturato le aveva dato sicurezza, da subito. Ancora non riusciva a rassegnarsi.

Il vice ispettore Filippetti riuscì ad anticipare l’appuntamento con Leone Giorgi. E dalle sue dichiarazioni, il commissario trasse una serie di notizie interessanti. In primis, il giovane poeta gli confermò tutto ciò che aveva testimoniato il suo collega Orfeo, inoltre Marinozzi, venne a conoscenza di un particolare importante, ma al momento poco rilevante per le indagini. Durante l’interrogatorio, più volte il nome di Max Scuderi venne associato a Tania.

     Tania si fidava di Leone: apprezzava la sua sensibilità e con lui si era confidata. Sebbene quel giovane abitasse in un corpo maschile, aveva un animo assai sensibile, quasi femminile.  

     La sua omosessualità, ormai dichiarata, non gli era più di peso come quando frequentava la scuola. Aveva superato con sofferenza l’impervio scoglio dell’ironia, a causa dei suoi modi affettati e languidi. E quel nome che indossava e che rappresentava l’essenza e la forza del maschio, non lo sentiva suo.

     Avrebbe preferito chiamarsi diversamente. Più che un ”Leone”, si sentiva come una gazzella.                      

     Di questo e delle sue difficoltà a relazionarsi, ne aveva parlato con Tania e ora si stava aprendo anche con Marinozzi. Gli confidò che era affascinato da lei. Ma non fisicamente, era attratto dalla sua indole femminile e dal suo charme. E lei si era confidata con lui, perché si fidava di quel ragazzo dall’animo gentile.

     Gli confessò che la sua femminilità, a volte, le aveva causato problemi, anche all’interno della casa editrice. Max le aveva fatto delle avances, ma lei, con garbo lo aveva respinto e i rapporti tra loro due si erano raffreddati. Tania aveva deciso di non dare troppo peso alla sua proposta per non turbare la serenità all’interno della casa editrice: se Pietro ne fosse venuto a conoscenza, di sicuro lo avrebbe licenziato.

     «Allora i rapporti all’interno degli uffici non erano così sereni!» asserì il commissario.

     Il fatto raccontato da Leone aveva aperto un nuovo spiraglio all’inchiesta.

     «No, erano tranquilli, anche perché Tania, di questo fatto, ne aveva parlato solo con me.»

     «Quindi, Orfeo e Derisi erano ignari delle avances che Max aveva fatto a Tania?»

     «Sì, è così… e Max non sapeva che Tania si fosse confidata con me.»

     Adesso però, Leone si sentiva in colpa verso Tania per averlo raccontato al commissario.

     E aggiunse: «mi sembra di averla tradita con questa rivelazione che le ho fatto!»

     «Stia tranquillo! Questo particolare rimane tra noi due.»

     «Grazie, commissario.»

     «Grazie a lei Leone, posso chiamarla così vero? Anche se so che a lei non piace,» e aggiunse: «ma parlare con lei mi è stato molto utile e sono certo che mi aiuterà a capire molte cose.»

     Il commissario lo salutò e lo accompagnò alla porta.

Filippetti stava rientrando in ufficio e aveva sotto braccio la cartella con i referti. Sull’arco della porta incrociò lo sguardo compiaciuto del suo capo mentre stava salutando Leone Giorgi. Aveva ricevuto dalla Scientifica l’esito delle impronte digitali. Quasi tutte erano state identificate tranne una. Perfino quelle appartenenti all’idraulico che aveva fatto la manutenzione alla cassetta del bagno. Ma anche nuove tracce erano state rinvenute e non erano compatibili con le altre. Molte di esse erano state trovate nel ripostiglio: sulla scala a libretto, sulla porta e altre su vari cacciaviti, ma da questi ultimi non era emerso nulla di concreto. Sui fianchi della libreria, però erano presenti le stesse impronte di origine ignota rilevate nello sgabuzzino e in un avvitatore a batteria. Delle viti, che erano state rimosse dalle staffe di sostegno, non c’era traccia. Di tutto questo il vice ispettore Primo Filippetti aveva informato il suo capo.

     «A questo punto non ci resta che convocare Elvio Bissotti. Vedi di rintracciarlo, devo sentirlo quanto prima! Troppe coincidenze che riconducono a lui. A parte l’idraulico, di cui siamo certi non c’entri nulla con la storia, l’unica persona estranea che ha bazzicato in quei giorni negli uffici è questo scrittore.» disse il commissario, appena finito di controllare i referti della Scientifica. Poi aggiunse: «Trovami tutte le sue pubblicazioni, anche quelle che ha stampato con gli altri editori. Voglio cercare di capire che tipo è questo Bissotti. Per quella edita da Derisi, basterà chiedere alla signorina Tania, oppure, se ti va di cercarla, la puoi trovare in mezzo a quella montagna di volumi. Però credo sia meglio chiedere a lei, oltretutto vedo che ve la intendete. E non mi dire che non ti piace!»

     «Commissario, lei ha sempre voglia di scherzare, anche se non posso dargli torto. Tania è proprio una bella gnocca! Ma lasciamo perdere…»

     «Hai ragione, lasciamo perdere, non è roba per noi!»

     «Allora le cerco quei romanzi del Bissotti» e con un filo di ironia aggiunse: e così, adesso, si butta nella narrativa… eh?»

     «Sì, ma se lo stile e gli argomenti sono quelli di cui mi accennava Sartori, credo che non mi appassionerò molto. Se avesse scritto polizieschi o noir, anziché libri sul sesso… mah? Comunque leggiamoci ‘sto Bissotti. Dicono che non sia male.»

     Nel giro di una settimana il commissario divorò tutti i suoi libri. Si chiudeva in ufficio e non c’era per nessuno. Anche a casa, prima di addormentarsi, i suoi romanzi gli facevano compagnia; quella settimana aveva preso l’abitudine di non spegnere la luce del comodino mai prima delle due.

     Voleva addentrarsi nel “personaggio” Elvio Bissotti.  

     Si era reso conto, comunque, che i suoi romanzi non erano affatto a sfondo sessuale, come aveva accennato Max Sartori. In realtà, anche se all’interno delle vicende erano presenti scene d’amore, esse non cadevano mai nella volgarità e tantomeno nel porno. I suoi romanzi trattavano di relazioni complicate con sfumature e raffigurazioni suggestive tra i protagonisti. La sua prosa era pura e precisa, non cadeva mai nello stucchevole; i mutamenti di prospettiva e gli arricchimenti descrittivi offrivano il piacere della lettura. Anche a lui che non era un appassionato del genere.

     Da quei romanzi non era emerso nulla che riconducesse ad una mente criminale. Anzi, l’autore si era rivelato sensibile e rispettoso anche verso chi non aveva le sue idee. Ma tutto questo non poteva inficiare le indagini su quel delitto celato in maniera grossolana da disgrazia.

Al funerale dell’editore c‘era una marea di gente. La piccola chiesa di San Filippo era gremita di conoscenti, amici e personaggi che ruotavano nel mondo dell’arte e della cultura. Il commissario aveva ordinato di fare un video della funzione, poi l’avrebbe visionato con calma. Elvio Bissotti non era al funerale e ciò non passò inosservato al commissario che aveva riguardato più volte il filmato in presenza di Tania.

     Il vice ispettore Filippetti lo aveva cercato più volte, ma lo scrittore era indisposto: una brutta bronco/polmonite e una fastidiosa tosse lo relegavano a letto con la febbre. Il commissario riuscì finalmente a convocarlo dopo ripetute telefonate.

     Quando lo scrittore arrivò al commissariato, era imbacuccato come se fosse febbraio: sotto al giaccone grigio, una sciarpa di lana a righe verdi e blu gli fasciava il collo e un pesante berretto gli copriva le orecchie. Era la prima volta che lo incontrava, non gli fece una buona impressione: sembrava un barbone. Eppure, i suoi libri lo avevano toccato in modo positivo. Adesso, invece, vedendolo in quello stato, gli sembrava impossibile che quegli argomenti e quelle tematiche fossero scaturite dalla sua penna.

     Nella sua lunga carriera di investigatore, aveva elaborato che non bisogna mai fermarsi alle apparenze. In quell’indagine aveva scoperto che tutto filava secondo una logica: una banale logica. E su quella bisognava lavorare.

     «Prego si sieda. Finalmente sono riuscito a parlare con lei!»

     «Sì, mi hanno telefonato diverse volte, ma…» s’interruppe per un improvviso attacco di tosse e continuò: «purtroppo questa maledetta tosse mi sta affossando!»

     «Vuole un bicchiere d’acqua?» E chiamò il vice ispettore: «Primo, per cortesia, prendi un bicchiere e una bottiglia per il signore!» Gli strizzò l’occhio senza farsi notare dal Bissotti, che chino su se stesso, continuava a tossire.

     «Grazie, e mi scusi. Non so come abbia fatto a prendere questo brutto malanno a maggio.»

     «Magari ha preso freddo, e non si è accorto! Il tempo è stato mutevole, poi con l’età diventiamo tutti più fragili. A proposito, quanti anni ha?»

     «Cinquantasei, cinquantasette ad agosto.»

     Nel frattempo Filippetti era rientrato in ufficio. Aveva appoggiato sul tavolo il vassoio con il bicchiere e la bottiglia d’acqua. Lo scrittore approfittò e bevve tutto d’un fiato.

     «Va meglio adesso?»

     «Sì, meglio… grazie!»

     «Ah, volevo fargli i complimenti! Lo sa che ho letto i suoi romanzi? Mi piace molto la sua scrittura,» e aggiunse: «anche l’ultimo che ha pubblicato con Derisi, mi è piaciuto. L’ho trovato interessante e i personaggi sono ben caratterizzati… poi il finale è imprevedibile!»

     «Grazie, l’ultimo? Ah sì, “La distanza incolmabile” è l’unico che ho stampato con Derisi. È uscito a novembre dello scorso anno; in questo periodo, ne ho concluso un altro, ma non ho fatto in tempo a farglielo leggere. Povero Pietro!»       

     «Quando l’ha visto l’ultima volta? Si ricorda?»

     «Mi faccia pensare… se non sbaglio ci siamo visti a Spoleto. Ad una presentazione letteraria di una mia collega poetessa, ma lei non aveva pubblicato con lui: erano i primi di gennaio.»

     «Lei scrive anche poesie, oltre alla narrativa?»

     «Beh, ogni tanto, quando sono in vena creativa, ma per ora le tengo nel cassetto. Non le ho mai pubblicate. Chissà, prima o poi ne farò una raccolta.»

     «Mi tolga una curiosità: non so se mi può rispondere, ma com’era Pietro nel lavoro?»

     «Lui era molto preparato dal punto di vista letterario, conosceva molto bene la letteratura americana e quella anglosassone, ma si fidava troppo dei suoi collaboratori. Tutti troppo giovani!»

     «Cioè? Si spieghi meglio! Max Sartori non mi sembra giovane anche se ha quei piercing e quei capelli arruffati.»

     «No, è vero. Lui, però, nonostante le apparenze, è quello sa fare meglio il suo lavoro, anche se non si occupa della revisione dei testi. Mentre gli altri si sentono tutti troppo sicuri, poi sotto sotto creano casini.»

     «Si spieghi. A me sono sembrati tutti ragazzi in gamba!»

     «Niente di importante però, nelle revisioni, Derisi li lasciava troppo liberi di esercitare tagli. Capitava anche che, nonostante tutti i controlli, qualcosa sfuggisse ai loro occhi, e i romanzi andavano in stampa con errori. Purtroppo non sono stato il solo a subire la loro saccenteria.»

     «Quindi, se ho capito bene, non si è trovato soddisfatto della casa editrice, o sbaglio? Nella mia modesta conoscenza di letteratura, però nel suo ultimo lavoro, non mi sembra di aver scovato errori o refusi.»

     «No, nel complesso, mi posso ritenere soddisfatto... tanto che avevo deciso di sottoporgli il manoscritto del mio ultimo romanzo, ma non ho fatto in tempo.»

     «Perciò lei non ha avuto modo di incontrarlo prima della sua morte.»

     «No.» concluse categorico.

     Dopo questa conferma, gli venne un altro improvviso attacco di tosse. Iniziò a piegarsi sulla sedia come se stesse per tirare l’ultimo respiro. Marinozzi si chiese se quella tosse improvvisa fosse pilotata oppure veritiera. Quindi, per non rischiare la sua salute e, con tutti quei microbi che aleggiavano in ufficio, prese la saggia decisione di sospendere l’interrogatorio. Non voleva buscarsi un malanno o una polmonite a causa sua. Allora, con discrezione invitò Filippetti ad accompagnarlo fuori e aggiunse che si sarebbero risentiti quanto prima.

     Il vice ispettore poco dopo ritornò in ufficio, prese il vassoio e lo consegnò alla Scientifica per i rilievi delle impronte.

     Nella mente del commissario, continuava a roteare un dubbio. Aveva la sensazione che tutto quello che aveva dichiarato non fosse la verità, ma una verità incompleta. Se era davvero un buon narratore, come del resto era considerato dalla critica, sapeva nascondere il vero o perlomeno era abile a descrivere una realtà virtuale.

I risultati della scientifica arrivarono in ufficio il giorno seguente. Le impronte lasciate sul bicchiere dal Bissotti erano compatibili con altre ritrovate all’interno degli uffici. Alcune di esse erano state rilevate sui fianchi della libreria, ma com’era possibile che il Bissotti, anche se avesse avuto accesso agli uffici, poi avesse avuto anche il tempo necessario per manomettere la scaffalatura? Non era certo un lavoro da eseguire in pochi minuti, considerato che in redazione c’era sempre qualcuno dei collaboratori di Pietro Derisi.

     Più passavano le ore, e i giorni e più si convinceva che l’indagine si stava complicando. Pur essendo tra i primi indiziati, mancava qualcosa che inchiodasse l’assassino al muro. Come quel Cristo, appeso sulla parete dell’ufficio… solo lui aveva assistito al crimine!  Il commissario, però, per le sue indagini, non si era mai affidato a santi o madonne e anche stavolta avrebbe scoperto il colpevole senza il loro aiuto.

     Doveva convocare di nuovo Max. Lui era stato il solo a parlare con il Bissotti poco prima che avvenisse il crollo e lo fece convocare per il pomeriggio del giorno seguente.

     Questa volta Max non fece la solita trafila d’attesa prima di essere convocato, Filippetti lo fece entrare subito.    

     «Prego Sartori, si accomodi!» il commissario lo invitò a sedere e aggiunse: «L’ho cercata perché mi era venuto un dubbio! Forse lei può aiutarmi.»

     «Buongiorno commissario, dica. Dica pure!» rispose con determinazione, sedendosi di fronte alla sua scrivania.

     Ormai si sentiva come di casa, era a suo agio. Non aveva nulla da nascondere.           

     «Mi dica una cosa, ci pensi bene. Quella sera di martedì, lei è uscito alle diciotto e trenta, è andato a calcetto, giusto? E Bissotti è venuto via con lei immagino.»

     «Sì. Mi aveva chiesto di restare in ufficio. Voleva aspettare Tania per consegnarle il manoscritto. Ma io gli ho detto che dovevo uscire e chiudere tutto. Lui se n’era andato, con un certo disappunto, quasi senza salutarmi.»

     «Mmmh… Tania mi ha confermato che quando è tornata in ufficio, poco prima delle venti, non c’era più nessuno. Ha spento le luci che erano rimaste accese. Forse lei, Max, per la fretta si era dimenticato di spegnerle…».

     Le tessere del puzzle lentamente si stavano incastrando e proseguì: «Allora lei è sicuro di essere andato via dagli uffici dopo Bissotti, giusto?»

     «Sì, avevo la partita di calcetto ed ero in ritardo. Non ho le chiavi dell’ufficio. E anche se mi fossi accorto di averle lasciate accese, non avrei potuto riaprire la porta…» e continuò: «poi, nonostante avessi insistito, Bissotti non mi ha voluto lasciare il manoscritto. Se n’era andato, quasi sbattendo la porta.»

     «Ho capito. Infatti, Tania il manoscritto, non l’ha mai avuto. Quando è arrivata in redazione non c’era nessuno. Ha solo spento le luci che lei aveva lasciato accese.»

     «Allora, di sicuro, le ho lasciate accese io!»

     «Beh, direi proprio di sì! Anche perché sia Leone che Orfeo erano fuori quel giorno.» E aggiunse «Bene, mi è stato molto d’aiuto, ora volevo chiederle un’ultima cosa, ma non c’entra nulla con le indagini: è vero che volete rilevare la casa editrice?»

     «Ci stiamo provando, sarebbe un peccato farla finire con lui. Pietro era così orgoglioso della sua creatura.»

     «Capisco! Da chi è partita l’idea di rilevarla?»

     «L’ho proposto io ai ragazzi, erano tutti d’accordo con me… di non mandare tutto a carte quarantotto!»

     «La ringrazio, per ora ho finito!»

     Il commissario lo accompagnò alla porta e prima di salutarlo gli ricordò di tenersi a disposizione. Max mentre si allontanava con la mano si arruffò la folta capigliatura, come se stesse cercando di rimescolare i pensieri che il commissario gli aveva scombinato.  

     Quando Marinozzi rientrò in ufficio, dalla finestra rivolta verso nord, notò che il tempo stava cambiando in fretta. Il sole di poco prima si era offuscato, le fronde dei platani del viale ondeggiavano irrequiete. Un vento improvviso si era alzato e in lontananza si intravedeva una nuvolaglia grigia che, dal monte, si stava avvicinando alla città.  Se il tempo avesse retto fino a domenica, quel fine settimana, aveva promesso alla moglie di portarla in Umbria. Voleva fare un salto a Rasiglia, un borgo incantevole circondato e attraversato da ruscelli e salti d’acqua limpida. A Luigina di sicuro sarebbe piaciuto. Ma quelle nubi grigie, mentre si avvicinavano, si stavano addensando anche dentro di lui.

     Nel frattempo, il PM Lucantoni lo cercava al telefono: non aveva più avuto notizie sull’indagine, era piuttosto alterato. Filippetti aveva provato a rassicurarlo, dicendo che il commissario appena possibile lo avrebbe richiamato. Ma il magistrato non volle sentire ragioni e se lo fece passare immediatamente:

     «Pronto? Buongiorno dottore, stavo per chiamarla… che c’è?»

     «Come …che c’è?  Marinozzi! vuole farmi incazzare? le avevo detto di tenermi informato e ancora non ho nessuna notizia dell’indagine!»

     «Dottore, ha ragione… è colpa mia» cercò di scusarsi per la sua negligenza.

     «…e certo che è colpa sua. E di chi altro può essere, la mia!? Avevo chiesto di essere informato sugli sviluppi, ma lei come al solito, fa orecchie da mercante. Se non viene da me con il rapporto dettagliato entro un quarto d’ora, giuro che gliela tolgo l’indagine!»

     «Dottore si calmi, siamo sulla buona strada. Stavo per venire da lei… posso fare un salto adesso?» Marinozzi sapeva di essere in torto e, nonostante non avesse molta simpatia per il magistrato, cercava di lisciargli il pelo. Non l’aveva più contattato perché era sicuro, che se l’avesse fatto, gli avrebbe messo il bastone tra gli ingranaggi. Adesso però che tutti gli ingranaggi erano ben oliati al loro posto e stavano girando, finalmente poteva sentirsi a posto con se stesso.

     «Certo! L’aspetto in ufficio.»

L’incontro, contrariamente a quello che il commissario aveva previsto, ebbe un carattere di ampia collaborazione e di estrema fiducia da parte del magistrato. Sprofondato nella sua poltrona di pelle nera lo ascoltò senza fare nessuna obiezione, cosa piuttosto rara, considerando che era solito polemizzare con lui.

     Marinozzi cominciò ad illustrare con dovizia di particolari, i dubbi e le incertezze che lo avevano accompagnato nel corso delle indagini.

     Il primo indiziato - lo scrittore Elvio Bissotti, forse il più facile da inchiodare -, essendo uno degli ultimi ad aver frequentato il luogo del delitto, presto venne accantonato, anche se erano sorti dissidi tra lui e l’editore. Inoltre lo scrittore non poteva avere libertà di accesso negli uffici se non in presenza dei collaboratori di Derisi; e poi le sue impronte rilevate all’interno della redazione non potevano essere portate come prova schiacciante.

     Tania, nella vicenda, aveva rivestito un ruolo importante; pur avendo avuto rapporti con il suo capo, non poteva certo esser stata lei a manomettere le staffe. Che scopo aveva? Era innamorata di Pietro e lui la contraccambiava dandole completa fiducia e ampio spazio decisionale.

     Orfeo e Leone, gli altri due giovani collaboratori, quel giorno erano stati fuori per l’intera giornata e le loro impronte, pur presenti nella scaffalatura e nella scala a libretto, non erano compatibili con quelle trovate sul trapano avvitatore.

     L’idraulico - l’unico rimasto da solo negli uffici -, era la prima volta che vi metteva piede e non aveva nessuno scopo ad allentare i sostegni della libreria. Comunque le sue impronte erano solo all’interno del bagno, sulla cassetta di riempimento dello sciacquone.

     A questo punto l’unico indiziato era risultato Max Sartori, il più anziano del gruppo. L’unico a non possedere le chiavi degli uffici, ma l’ultimo a lasciare la redazione quella sera. Era uscito - quanto da lui dichiarato - alle diciotto e trenta. Ma, come poi viene confermato dai suoi compagni di calcetto, era arrivato al campo di gioco con circa venti minuti di ritardo. Che poi sarebbe il tempo necessario per salire sulla scala, prendere l’avvitatore e allentare le viti che, non sono state più rinvenute, e quindi rimuovere alla meno peggio le tracce da lui lasciate.  Infatti sul trapano Black & Decker ne sono state trovate alcune, dove è evidente il vano tentativo di rimozione.

     Il movente che ha spinto il capelluto grafico a compiere questo gesto ha varie spiegazioni: 1) Max si era invaghito di Tania, ma lei non ne voleva sapere delle sue avances; con molto garbo lo aveva respinto preferendo il Derisi che nel frattempo le aveva dato ampi spazi di manovra all’interno della casa editrice. La circostanza aveva accresciuto il suo odio e la sua gelosia verso l’editore. Lui, oltretutto, pur avendo molta esperienza nel settore, era stato sempre tenuto ai margini. 2) Quando Pietro Derisi fondò la casa editrice, Max fu il primo ad essere contattato per iniziare la nuova avventura e avrebbe voluto avere una quota di partecipazione nella società, ma l’editore, non ha mai voluto dividere le quote con nessuno. Questo particolare importante Pietro Derisi lo rivelò a Filippetti una sera durante un aperitivo al bar delle Logge. 3) Ultimo fatto - non meno importante -, subito dopo la tumulazione della salma, Max aveva già pronto il piano per rilevare la ditta con gli altri ragazzi. Questi, all’oscuro del suo diabolico progetto, avevano dato il loro parere favorevole, ma riservandosi di parlarne con più calma e in diversa sede. Nonostante ciò, dopo il funerale, Max Sartori non esitò ad estrarre dalla cartella la bozza della nascente: “Casa Editrice Derisi - Associati” con il nuovo nome, il logo i colori istituzionali    

     Ora tutte le supposizioni comprovate dalle testimonianze, dalle prove schiaccianti e dalle impronte, erano diventate certezze.

     Il Dottor Lucantoni durante tutto il rapporto, ascoltò in silenzio senza fare opposizioni a ciò che il commissario gli stava snocciolando. Alla fine della relazione, dopo vari tentativi di rinuncia, finalmente decise di accendere la sua sigaretta; sapeva che il commissario non amava quel vizio e gli chiese se il fumo lo infastidisse. Marinozzi, pur non sopportandolo, non poteva certo opporsi. Quindi, tra spirali di fumo acre e puzzolente, espose con estremo scrupolo il fascicolo, soffermandosi su punti all’apparenza poco chiari. Alla fine il magistrato decise che si poteva procedere senza indugi.

     «Vedo che ha fatto un’ottima indagine, Marinozzi. Direi che ci sono tutti gli elementi per inchiodare Max Sartori. Le prove sono incontrovertibili e credo che il giudice non opporrà obiezioni.»

     «Grazie dottore, vorrà dire che quelle ferie interrotte, le recupererò!»

     «Certo, così potrà tornare alle sue rose finalmente!»

     «Veramente il fine settimana volevo portare mia moglie in gita a Rasiglia! Gliel’ho promesso…»

     «Io nel frattempo richiedo di emettere l’ordinanza cautelare… e faccia buon week-end!» e aggiunse: «Ah, dimenticavo! Se va a Rasiglia faccia un salto da Angelo: fa degli ottimi tortelloni al tartufo!»

© Franco Duranti - marzo 2020