Anche quella mattina di fine marzo si era alzato di buon’ora per la solita corsa. Era un’abitudine ormai consolidata, quella di tenersi in forma. A quasi cinquantacinque anni, Raymond aveva ancora il fisico asciutto e atletico di quando era in Vietnam.  

     Di solito, usciva di casa molto presto prima di andare in ufficio: sia con il tempo bello che con la minaccia di pioggia. Come quel venerdì, il cielo un po’ grigio su Pasadena non prometteva nulla di buono. Aveva comunque indossato la leggera giacca di nylon che per l’evenienza l’avrebbe protetto.

     Quel giorno non era andato in ufficio e aveva deciso di sperimentare un nuovo tragitto. Il solito percorso/natura nei parchi della città gli era venuto a noia: era montato sulla sua vecchia Ford del 77 e si era diretto in collina, verso Eaton Canyon. In appena venti minuti, o poco più, avrebbe raggiunto la Riserva Naturale.

     Non c’era mai stato, ma sapeva che era un posto comodo per correre: con il sole poteva ripararsi tra le ombrose piante e, se il tempo avesse minacciato pioggia, come quel giorno, avrebbe, comunque, trovato un buon riparo sotto le chiome degli alberi o in qualche cavità della roccia. Di certo non lo spaventava quel percorso dopo aver passato quasi due anni tra la giungla del Sud Est Asiatico.

     Aveva scelto quel posto con sentieri battuti solo da pochi escursionisti: amava stare solo. Quella sporca guerra lo aveva segnato e non aveva voglia di vedere gente ed era certo che lì non ne avrebbe incontrata. Il walkman che di solito gli faceva compagnia, quella mattina lo aveva dimenticato. Poco male, niente Jimi Hendrix nelle cuffie: le note distorte della sua Stratocaster le aveva ascoltate già un milione di volte. Poteva, finalmente, essere solo, solo con se stesso e il suo respiro regolare. Lo avrebbero accompagnato il frusciare delle chiome mosse dal vento, lo sciabordio dei ruscelli saltellanti tra le rocce e lo scricchiolio dei ramoscelli sotto la pressione delle sue scarpe da jogging.

     Si sentiva appagato da quella natura mentre i suoi pensieri scivolavano liberi in sintonia con le sue falcate sicure. Procedeva con una corsa regolare e determinata, mentre la sua mente ripercorreva i tratti della sua vita avventurosa. Si era soffermato a ripensare alla sua recente nomina a capo servizio dell’ufficio postale. Aveva smesso di consegnare pacchi e finalmente poteva stare seduto dietro la scrivania e dirigere il settore della logistica.

     Era stato uno dei pochi reduci che dopo il rientro si era integrato abbastanza bene nella vita civile. Poi i suoi pensieri si erano sintonizzati sul recente fallimento del suo matrimonio.

     Kate, la rossa del Maine, con cui si era sposato lo aveva piantato dopo quasi dieci anni di vita insieme. Non riusciva più a sopportare i suoi improvvisi scatti d’ira e la violenza verbale e, a volte, anche fisica. Quel labbro che le aveva spaccato con un ceffone, era stata l’occasione ultima per porre fine al loro rapporto.  Ed era scappata alle Bahamas con un collega d’ufficio, lasciandolo solo con la sua fresca nomina a capo servizio.

     Raymond quel tradimento e successivo abbandono li aveva metabolizzati in fretta, dopotutto non era mai stato convinto di amarla, ma forse non era capace di amare più nessuno. Si era attaccato a lei perché dopo il rientro dal Vietnam, Kate era stata l’unica delle sue donne a sopportare i suoi estremismi.

     Dopo la sua recente fuga, viveva da single. Era difficile vivere con lui e la sua insofferenza lo aveva reso insopportabile: colpa delle scorie di quel maledetto conflitto che emergevano in continuazione, come schiuma sporca.

     Procedeva sicuro lungo il sentiero. A tratti la vegetazione s’infittiva e, dopo poco, si apriva in una piccola radura con bassi cespugli fioriti e noccioli. Vagamente gli ricordava la giungla, quella era difficile da dimenticare: ad ogni passo li attendeva un pericolo, un tranello.

     Continuava a spingere sulle gambe e aveva la strana sensazione di trovarsi sempre nello medesimo punto, anche se gli alberi non erano gli stessi. Certo, non aveva paura di perdersi, ma si stava convincendo che forse aveva sbagliato a lasciare il vecchio percorso cittadino per quel parco che, nonostante le indicazioni di alcuni cartelli, aveva qualcosa di sinistro. Pensava tutto questo e si sentiva ridicolo; il timore che stava provando era quello di un ragazzino e non certo di un uomo che aveva combattuto i viet cong. 

     Il tempo, come aveva previsto prima di prendere l’auto, lentamente stava cambiando. In pochi minuti, una leggera nebbiolina lattiginosa aveva ammantato tutta la vegetazione e nelle radure l’azzurro del cielo, che fino a un attimo prima lo aveva accompagnato, era scomparso. Procedeva con difficoltà.  Sentiva che il bosco, ancora una volta, stava diventando una trappola e ciò lo angosciava.

     Intorno a lui, non c’erano le mine insidiose dei vietcong, zanzare e serpenti velenosi, ma procedeva a random e aveva un insolito sentore di essere osservato.

     Percepiva alle sue spalle una presenza aliena. Come se qualcuno stesse facendo il suo stesso percorso. Forse era soltanto la paura che ancora si portava dentro dalle foreste pluviali del Delta del Mekong.

     D’un tratto si arrestò e rimase in allerta, in silenzio. Ma come si fermò ad ascoltare, anche quei passi percepiti alle sue spalle cessarono.

     Si convinse sempre di più di non essere solo. Quell’improvvisa e ignota presenza lo preoccupò: stava provando la stessa sensazione che aveva con la sua squadra, quando attraversava la giungla. Si riebbe da quel pensiero, allacciò la zip della giacca impermeabile fino al collo, calzò il berretto fino agli occhi e proseguì.

     Intanto la nebbia di poco prima, si era trasformata in gocce di pioggia, via via, sempre più pesanti. Nel giro di pochi minuti, si tramutò in un furioso temporale. Non temeva l’acqua: aveva già affrontato situazioni estreme con l’acqua fino al petto. Ma si sentiva sempre gli occhi addosso.

     Cominciarono ad abbattersi fulmini e saette, sempre con maggiore intensità. Un fulmine si schiantò a pochi passi da lui. Si era abbattuto su un grosso albero e l’improvvisa fiammata lo aveva acceso come un fiammifero. Poco prima, sotto quella stessa pianta aveva cercato riparo; se fosse rimasto ancora un po’ lì sotto si sarebbe arrostito come un pollo.  

     Il panico lo avvinghiò, come le strette spire di un anaconda, mentre tutto intorno continuavano a cadere fulmini. Quelle deflagrazioni gli ricordavano gli scoppi dei mortai: aveva visto morire tanti, troppi giovani marines come lui.

     Poco dopo, come per magia, lo scroscio cessò.

     Raymond si ritrovò tremante, infreddolito e inzuppato. Alla sua destra, continuava a udire il ruscello che saltellava tra le rocce; poi ancora una volta si era aperta una nuova radura. Questa però era diversa dalle altre: al centro una casupola aveva una vaga somiglianza con le capanne dei contadini vietnamiti. Una di quelle che di solito loro distruggevano con il lanciafiamme. Quelli erano gli ordini impartiti e loro eseguivano.

     Ma quella casupola aveva qualcosa di strano: più la osservava e più gli sembrava l’illustrazione di un libro di fiabe. Lui, però era lì davvero e per di più bagnato fradicio come un topo di fogna.

     Non aveva dubbi, quella casa era abitata: dal comignolo si alzava un lieve filo di fumo. Sperò di trovare rifugio e si avvicinò senza esitazione all’uscio di legno verde: con decisione tirò la fune e la campanella di bronzo tintinnò argentina per tre volte rompendo il silenzio irreale che avvolgeva il luogo. L’aria era intrisa di umidità, di odore di muschio e di erba bagnata; tutto intorno si diffondeva un piacevole profumo di legna bruciata.

     Raymond stava tremando come una foglia: quella pioggia e quella strana situazione lo avevano provato. Doveva riscaldarsi, riacquistare l’energia e il calore del corpo. Era intirizzito e rigido come un pezzo di ghiaccio.

     Il rumore metallico dei cardini arrugginiti anticipò il suo stupore. La porta verde si aprì. Una bella donna con folti capelli neri, sui quaranta anni, lo accolse con slancio. Quasi lo stesse aspettando.

     “Ce l’hai fatta finalmente ad arrivare!” disse con un sorriso ambiguo.

     Una felpa tutta nera, con il cappuccio quasi le copriva il volto, ma da sotto si intravedevano due occhi scuri che lo scrutavano con insistenza. La sua maglietta, anch’essa nera e aderente, metteva in risalto le forme piene e le sinuosità del corpo. Ai piedi calzava scarpe sportive, nere, ma asciutte, non inzuppate di pioggia come le sue.

     Non gli diede tempo nemmeno di rispondere e aggiunse: “Presto entra, o ti prenderà un colpo lì fuori…”

     Raymond sgranò gli occhi. Quella donna, pur essendo mora di capelli, gli ricordava Kate. Il labbro inferiore era segnato da una cicatrice, simile a quella della sua ex moglie. Quella situazione paradossale in cui si stava trovando, un po’, lo turbava. Però, era talmente malridotto, che si vide costretto ad accettare l’invito e provò a dire:

     “Allora non mi ero sbagliato… eri tu che correvi nel bosco”. Lei, con i suoi occhi scuri come la pece, gli lanciò uno sguardo infuocato che gli provocò un’onda di gelo.

     “Sì, ero io. Faccio un po’ di corsa tutti i giorni, ma sapevo che il tempo non prometteva niente di buono…” disse come volesse giustificare la sua presenza in quella casa. 

     La bella e conturbante mora senza troppi giri di parole, aggiunse: “Dai, presto! Vieni accanto al caminetto e togli i vestiti bagnati o ti buscherai un raffreddore… nel frattempo ti preparo una tisana. Vedrai ti riscalderà!”

     “Grazie, sei gentile. Ma non ci siamo ancora presentati: io mi chiamo Raymond Clever”

     “Ciao, Susan Darkness”

     “Abiti qui?”  – le chiese. Più la guardava e più si convinceva che quella donna avesse qualcosa in comune con Kate. Ma non era possibile che fosse lei.

     “Sì, a volte… sei stato fortunato a trovarmi qui, altrimenti saresti morto assiderato. Credo che dovresti toglierli… li mettiamo ad asciugare. Ora ti prendo una coperta”.

     Lui si sentiva in imbarazzo: spogliarsi davanti a quella donna che appena conosceva. Controvoglia, si tolse il berretto inzuppato, la giacca a vento, la maglietta e si fermò in attesa della coperta. Guardava le fiamme del camino acceso che stavano danzando minacciose, mentre sullo fondo annerito le scintille si perdevano nel buio della canna fumaria.

     Lei tornò poco dopo, con una pesante coperta patchwork di tanti colori e gliela porse. E, imperiosa lo invitò ancora a svestirsi:

     “Spogliati! Vado a prepararti qualcosa di caldo. Se vuoi puoi metterti a letto, fra poco arriva la tisana… starai meglio!”

     Tutte quelle premure lo facevano sentire a disagio, non era più avvezzo. Era rimasto solo. Solo come un cane randagio per le vie di Pasadena. Le pareti del suo cuore si erano ispessite e non lasciavano filtrare emozioni. Erano diventate coriacee. Ma in quel momento, forse grazie alle premure di Susan, le sentiva improvvisamente sottili e leggere come carta velina. Lei, con la sua determinazione lo stava ammaliando e più passavano i minuti e più si sentiva come se una strana trappola si stesse chiudendo su di lui.

     Poco dopo, lei tornò con la tazza fumante e guardandolo come se volesse farlo suo, imperiosa gli disse: “Sei ancora qui? Vai sotto le coperte, ora te la porto a letto!”       

     Tutte quelle attenzioni gli sembravano eccessive; forse era soltanto una forma esasperata di gentilezza, ma non riusciva a darsi una spiegazione. Non erano credibili, neppure verso un uomo malridotto e infreddolito come lui.

     Verso quella donna si sentiva in inferiorità psicologica.

     Si alzò dalla poltrona, con la coperta addosso: lei lo prese per mano e come un automa lui la seguì docile. L’aria che si respirava in quella stanza era stranamente rilassante, ma allo stesso tempo pervasa da una tetra angoscia. Le pareti, tinteggiate di blu notte, creavano un’atmosfera irreale in cui un gattaccio nero acciambellato sul letto a baldacchino, giaceva indifferente. Appena Ray entrò nella camera, il felino emise un strano verso, un ruggito catarroso d’una pantera. Tutto intorno, tra profumi d’incenso aleggiava un senso di illusione e mistero. Gli sembrava di trovarsi di nuovo nella fumeria d’oppio a Saigon.

     Raymond era come in trance: si sedette sul bordo del letto guardando con sospetto quell’ammasso di pelo nero. A fianco dell’alcova, una cornacchia sonnecchiava sorniona su un trespolo e lo ricevette con un sinistro: cra, cra, cra!

     Lei, gli porse la bevanda e lo invitò a bere: “Bevi, ti farà bene…  vedrai, dopo ti sentirai meglio!”. E aggiunse, riferendosi alle due oscure creature: “Raymond non temere, sono i miei amici, due tesori…” Lui, con timore, ubbidì e accostò le labbra alla tazza. Sorseggiò il liquido caldo e profumato di spezie esotiche; a mano a mano che gli si depositava nello stomaco, aveva la strana sensazione di una improvvisa rilassatezza.

     Subito cadde in un sonno profondo e appena chiuse gli occhi, gli parve di precipitare in un pozzo buio e senza fine. A mano a mano, che scivolava verso il fondo, rivedeva spezzoni della sua vita, come in un vecchio film in bianco e nero. Tutto intorno a lui roteavano volti di persone sconosciute che lo guardavano ghignando.

     Si rivide bambino: sua madre lo rimproverava per aver rotto il vetro della finestra della cucina con la palla da base-ball, mentre i vetri che gli cadevano addosso gli laceravano il braccio e tutto intorno era imbrattato di sangue scuro. E, nascosto dietro la porta della sua camera, distingueva la sagoma barcollante di suo padre ubriaco di whiskey e udiva le grida di sua madre picchiata e colpita al volto con un ceffone.  Lei, piagnucolante con un rivolo di sangue scuro che le usciva di bocca, accusava in silenzio.

     Mentre quelle immagini violente della sua fanciullezza scorrevano, cercava di aggrapparsi alle pareti del pozzo, ma non aveva appigli e continuava a proseguire nella sua discesa folle.

     E poi, di nuovo suo padre, con la testa fracassata nel letto, i poliziotti che giravano per casa e la madre, con lo sguardo vuoto, che veniva portata al commissariato in manette.  

     Lentamente, la caduta libera rallentò e Ray cominciò a fluttuare piano.

     D’un tratto, si ritrovò al centro addestramento reclute, con l’istruttore che gli urlava nelle orecchie e lo faceva strisciare nella melma. Era stato sempre maniaco dell’igiene e adesso si vedeva costretto a ubbidire a ordini idioti e a rotolare nel fango come un maiale.

     La caduta libera verso il fondo accelerò di nuovo: insieme alla sua pattuglia stava volando con l’elicottero sopra le risaie del Vietnam. Lui alla mitragliatrice M60 falciava tutto ciò che si muoveva sotto di lui, corpi di uomini e donne cadevano come birilli. Poi nella foresta, infestata di trappole mortali, serpenti e sanguisughe. James il suo amico di pattuglia inchiodato, come un Cristo, da una trappola di punte di bambù contro un tronco. Sangue, sangue e ancora sangue nero. Mentre dal cielo pioveva Napalm, e l’aria diventava irrespirabile. Tutto intorno scheletri e morte.

     Continuava a precipitare, sempre più giù, e rivedeva la strage di My Lai. Raymond era in quella compagnia Charlie, 1° battaglione del 20° reggimento. Sterminò, a sangue freddo, più di trecento civili, contadini, uomini, donne e bambini. Bambini di due o tre anni, lanciati in aria come bersagli mobili e colpiti al volo prima che cadessero a terra. Lui, con il suo M-16, continuava a sparare su tutto ciò che si muoveva: schizzi di sangue nero, ovunque.

     L’ LSD gli dava la forza per non morire, mentre intorno la morte banchettava senza mai saziarsi.

     Si rivedeva, durante un’irruzione in un villaggio e, dopo aver massacrato tutti gli abitanti, stuprare una bambina di appena dodici anni. E poi sangue, sangue, ancora sangue. La canna del suo M-16 nella vagina della giovanetta e fare fuoco.

     Continuava a sprofondare in quel pozzo nero e rivedeva come in un film, le immagini della sua maledetta, sporca esistenza.

     Rivide anche il giorno del suo matrimonio, nel 72. Era stato rispedito a casa come reduce di guerra con un encomio per le sue “imprese”. Gli invitati attendevano che lui e Kate tagliassero la torta e quando il coltello affondò nella panna, la torta esplose come una mina antiuomo. Pezzi di Pan di Spagna, decorazioni e schizzi in tutta la sala, mentre i suoi commilitoni, forse strafatti di marijuana o anfetamine, ridevano e battevano le mani ai novelli sposi.

     Le sequenze di quel trailer con il sonoro distorto da un volume troppo alto, diffondevano esplosioni di mortai, raffiche di mitra che si confondevano con il rumore assordante dei rotori degli elicotteri che continuavano a vomitare morte.

    

     Raymond aprì gli occhi, bagnato di sudore freddo: la testa che gli scoppiava, era sveglio ma continuava a sentire quel puu - puu - puu - puu… incalzante dei rotori.

     Una voce femminile lo chiamò: “Dai, alzati stanno aspettando te!” – era Susan, che lo chiamava dal fondo del letto con il suo casco da marine in mano. Lo riconobbe, era proprio il suo, come poteva sbagliarsi, c’era quella frase scritta da lui: “Ray-fuck you!”

     Provò a scendere dal letto. Intanto il motore assordante dell’elicottero continuava a pompare nella sua testa come un martello pneumatico.

     “Non ti preoccupare, prendi queste due pasticche e buttale giù... dai, vestiti in fretta! È da un po’ che ti sto chiamando…” Le porse le pillole e il bicchiere d’acqua. Lui le strappò il bicchiere dalla mano e bevve d’un fiato, mentre già si stava rivestendo alla meno peggio.

     “Grazie di tutto, devo andare.” Strappandole il casco dalle mani, si diresse verso l’uscita. Fuori il rumore era ancora più rimbombante: tutto intorno una densa cortina di gas fumogeni gialli e rossi ammantava l’area circostante. Intanto i suoi commilitoni continuavano a chiamarlo: “Dai Ray, muovi il culo!”

     Riconobbe la voce John Waterhead. E mentre correva verso il portellone intravide la sagoma scura di Jimi il blue boy che faceva fuoco di copertura con il suo M60.

     Raymond saltò su e venne agganciato per il braccio da Marc, il fotografo. Mentre Nick Nowinsky, il pilota, dava gas e si alzava in verticale zigzagando, con i proiettili del Kalashnikov che rimbalzavano sulla carenatura. James gli passò il giubbetto antiproiettile e lo esortò a mitragliare quei maledetti charlie che continuavano a sbucare da tutte le parti: “Dai Ray, ammazzali tutti quei fottuti musi gialli!!!” Infilò il giubbetto e si guardò intorno.

     Non riusciva a mettere a fuoco la situazione, era irreale eppure il frastuono dei rotori e dei proiettili che schizzavano sembravano veri. Cazzo…! Erano veri! Un proiettile bucò la cupola di plexiglass e colpì alla spalla Larry. Bestemmiò, lasciando cadere il suo M16. Quella situazione l’aveva vissuta tante volte, ma ora i suoi compagni, sotto l’elmetto, non avevano volto. Erano loro, ma i loro visi erano bianchi e scarni, senza le gote, privi di muscolatura con le orbite oculari vuote.        

     La pelle raggrinzita come un’antica pergamena: erano tutti morti. Morti viventi e ancora giocavano a quella sporca guerra. Tutta la squadra aveva lasciato la pelle laggiù: solo lui era riuscito a scampare quella morte. Ma, come potevano essere ancora lì?      

     Allora provò ad armare l’M60, ma l’otturatore era bloccato e si voltò verso Larry che stava tenendosi la spalla sanguinante, per dirgli che si era inceppato. Lui, con le sue orbite vuote, guardò Ray e si mise a urlare come un disperato: come quando lo avevano catturato i vietcong e scuoiato vivo, lasciandolo morire tra urla inumane. Provò a guardare Marc, il fotografo, il più equilibrato di loro. Ma come poteva trovarsi lì insieme agli altri? In un agguato, era saltato su una mina e aveva perso entrambe le gambe.

     Raymond, in quel momento di disperazione, era in preda al panico. Non voleva cadere vivo nelle mani dei charlie come Larry: non avrebbe avuto scampo. Allora chiuse gli occhi, si allacciò il casco, si sporse dal portellone e si gettò nel vuoto. Cominciò ad aleggiare in aria come un gabbiano: l’acido di Susan aveva fatto il suo effetto!

     Il giorno dopo il tempo era migliorato a Eaton Canyon. Tra gli escursionisti che giravano per i sentieri e le valli, un bambino gridò: “Mamma, mamma guarda… c’è un corpo in fondo al canalone!”

     Raymond era li.

     Arrivarono lo sceriffo della contea, l’ambulanza, la stampa e le telecamere. La CBS trasmetteva le immagini del ritrovamento. Le telecamere stavano inquadrando il cadavere coperto da un lenzuolo bianco da dove usciva un rivolo di sangue. Il corrispondente, che commentava, si stava domandando di chi fosse quel corpo, come fosse finito proprio lì quell’elmetto e cosa significasse la scritta: “Ray - fuck you”

     Era stato identificato il corpo. Katy, la rossa, era stata rintracciata. Ricevette la notizia della morte a Honolulu, mentre si stava truccando per andare in spiaggia. Guardandosi allo specchio, sul labbro inferiore aveva ancora la firma che lui le aveva lasciato.

     Riagganciò con malvagità e sputò tra i denti: “Vai a farti fottere, Ray!”

 

     © Franco Duranti - agosto 2019