Partiti da Ancona nel primo pomeriggio, avevano preso la SS. 16 e quindi la superstrada n.76 della Vallesina e, all’uscita dello svincolo sulla sinistra avevano imboccato la provinciale Angeli-Apiro. Sulla loro destra avevano ignorato l’austera figura dell’Abazia di Sant’Elena in stile romanico-gotico risalente all’anno mille: non era quella la loro meta. Il fiume Esinante, bagnato da un rivolo d’acqua, scorreva pigro per unirsi poco più in basso all’Esino. Il suo greto lasciava scoperte le rotonde pietre in arenaria. La zona è ricca di questo materiale e viene utilizzato come elemento da costruzione. Sul margine della strada alcuni selcini le squadravano a colpi di scalpello.
Le giornate si stavano accorciando, ma la luce era ancora buona. Il tempo quel giorno aveva retto. Il cielo sopra di loro era limpido e azzurro. Insolito per una giornata di fine ottobre. Quando scesero dall’auto per parcheggiare ai margini del bosco, qualche nuvola si profilava verso nord. La cima del Monte era ammantata da un soffice cappello di nuvolaglia bianca.
Philip Sanders era arrivato lì per un reportage fotografico per una rivista di viaggi e Margherita, la sua ragazza di Ancona, l’aveva accompagnato. Lui, si era documentato su quel sito e le aveva raccontato che quelle grotte, incastonate nell’arenaria, erano state usate dagli eremiti per pregare isolati dal resto del mondo. Anche quelle, come l’abbazia di Sant’Elena, risalivano all’incirca all’anno mille. Poi, i frati Camaldolesi le abitarono nel ‘500 e fiorirono leggende e dicerie su quel posto.
Mentre viaggiavano, Philip le aveva parlato di cose strane e aneddoti su quei frati. Le parlò di un certo Frate Antonio da Recanati che si era ritirato in quell’eremo. Scavò la sua cella e si isolò dal resto mondo per espiare il suo peccato.
“Quale peccato?” le chiese Margherita incuriosita. Lui la guardò sornione e le spiegò:
“Sembra avesse ammazzato sua moglie. L’aveva sorpresa a tradirlo con un contadino. Si dice che, prima di farsi frate, fosse stata una brava persona, ma perse la testa. Accoltellò prima la povera moglie poi uccise l’amante che fu trovato nudo, appeso ad un noce. Senza i genitali”.
Margherita rimase ad ascoltare in silenzio con un filo di sgomento. Poi, per sdrammatizzare si fece una risata a denti stretti e disse: “Doveva essere un tipetto caldo quel frate!”
“Già!” e aggiunse: “Scappò dal paese, per sfuggire al tribunale che di sicuro lo avrebbe condannato a morte per il duplice omicidio… e si rifugiò qui per scontare la sua pena con Dio.”
Lei era rimasta sorpresa dal racconto, le sembrava impossibile che una persona mite, come era stata descritta, fosse arrivata a compiere una vendetta così cruenta e disse: “Ma pensa tu! Questa storia sembra una di quelle novelle che si narrano sui frati.”
Durante il tragitto, ogni tanto, le ritornava in mente. Dopotutto, non c’era da meravigliarsi, era stato un delitto d’onore: uno dei tanti che si sentono anche oggi nelle cronache giornalistiche.
Erano quasi arrivati alla meta e il paesaggio lentamente stava mutando. La collina stava diventando sempre più aspra e in fondo al nastro d’asfalto si scorgevano le prime montagne dell’appennino Umbro-Marchigiano. Però lei continuava a pensare a quell’uomo tradito, poi diventato frate. Quanta violenza avesse usato prima sulla moglie e poi sull’amante…
Dopo un paio di chilometri arrivarono sulla strada che li avrebbe condotti in quell’ eremo immerso nel bosco. Parcheggiarono l’auto sotto un noce, ai margini della strada asfaltata. Alcuni malli schiacciati dalle ruote, punteggiavano di nero l’asfalto grigio. Scesero dal fouoristrada, lui prese il borsone con l’attrezzatura fotografica e lei imbracciò il suo zaino rosso.
Philip avrebbe avuto ancora un paio d’ore di buona luce per il suo reportage, e s’incamminarono lungo il sentiero. Sul viottolo, in terra battuta che saliva nella boscaglia, si udiva solo lo scorrere lento dell’acqua del Fosso del Corvo. Di tanto in tanto balzellava tra le rocce levigate e le radici affioranti. Lo stormire delle foglie, agitate dal vento, accompagnava i loro passi. Sopra di loro un bosco altissimo di ontani e pioppi e di salici, noccioli e olmi. Verdi di varie tonalità erano intrappolati tra i rami alti e contorti. Ai margini della selva il verde tenero del capelvenere contrastava con quello intenso dell’edera che si arrampicava sui tronchi.
Margherita non s’impressionava facilmente, ma quella fitta vegetazione e tutto quel silenzio quasi irreale, le provocava una strana agitazione mista a curiosità.
“È strano questo bosco. Così silenzioso e pieno di fascino.” disse, mentre soltanto i loro scarponi, sui sassi del sentiero, rompevano il silenzio.
“Di solito, i boschi sono silenziosi. No? Io direi che questo è magico. Poi quando saremo arrivati, vedrai. Si respira un’aria di misticismo e di pace.” Asserì Philip.
Lei non gli rispose, ma quel luogo, nonostante il fascino, continuava ad intimorirla.
Per una decina di minuti camminarono in silenzio. Lui era concentrato sulle foto che avrebbe fatto. Aveva già chiaro il tipo di taglio che avrebbe dato alle immagini. Voleva immagini compresse, senza usare obiettivi troppo corti. Dovevano essere foto diverse da quelle che normalmente si vedevano nelle altre guide turistiche.
Margherita era rimasta alcuni passi dietro di lui e si guardava intorno. Il gracchiare di un corvo o forse più di uno, ruppe il silenzio irreale e la fece trasalire.
Finalmente giunsero alla fine del sentiero. Passarono sotto un basso tunnel di fitti alberi che sfiorava le loro teste. All’improvviso, come davanti a uno schermo gigante, si trovarono in un’ampio piazzale: la bassa costruzione in pietra era davanti a loro. La luce, prima oscurata dal bosco, adesso era tornata di nuovo a splendere. Era una buona luce, bassa, come voleva che fosse.
L’eremo si stagliava orizzontale con il lato sinistro che poggiava su una parete di arenaria a strapiombo. Un piccolo campanile quadrato svettava vicino alla roccia. I toni caldi della pietra contrastavano con il verde intenso che lo circondava come la cornice di un quadro.
Quella luce tagliata aumentava i contrasti e Philip era certo che avrebbe eseguito un buon lavoro. Si mise subito all’opera. Iniziò a vagare per l’eremo cercando gli scorci e le inquadrature migliori.
Lei lo seguiva come un cagnolino fedele, mentre con la sua reflex lui continuava a catturare immagini. Però, si stava soffermando un po’ troppo in quelle celle e lei si stava annoiando:
“Phil, io vado a dare uno sguardo laggiù sul retro del monastero, tu fai pure con calma!”
Philip aveva posizionato il cavalletto di fianco alla grotta, in fondo alle scale. Era alla ricerca di un’immagine strepitosa. Quell’inquadratura lo stava mettendo a dura prova e sembrava che non riuscisse a trovare il taglio giusto. Doveva sbrigarsi. Il sole lentamente si stava abbassando e quella luce non sarebbe più tornata. Era meticoloso, al limite della paranoia e per uno scatto impiegava anche un quarto d’ora.
“Va bene. Finisco qui poi arrivo. Appena ho fatto, vengo là. Devo riprendere anche il retro dell’eremo, ma non ti allontanare troppo!”
“Hai paura che mi perda?”
Erano solo loro due. I chiassosi turisti che lo avevano frequentato appena due mesi prima si erano dileguati. Adesso l’eremo aveva ritrovato la sua vera natura di pace silenziosa.
Lui non rispose. Forse non aveva sentito o forse non voleva perdersi in chiacchiere inutili.
Margherita lo lasciò fare e si diresse sul retro del monastero. Un basso muro di cinta delimitava l’area. Una vecchia porta di legno verde, un po’ sgangherata, forse del ‘800 era di accesso al bosco. Era semi aperta. La spinse.
Il cigolio delle cerniere arrugginite dal tempo ruppe il silenzio. Lo stridore del ferro la fece rabbrividire: non aveva paura, però quel silenzio che regnava intorno la intimoriva. Ma chi l’avrebbe toccata!
***
I suoi passi procedevano lenti, ma sicuri. Si udiva solo il fruscio delle fronde agitate dal vento; e lo scricchiolio dei ramoscelli schiacciati dai suoi scarponi da trekking. L’oscurità del bosco, sopra la sua testa, la sovrastava come una cappa di piombo. La luce, a mano a mano che s’inoltrava, si affievoliva sempre di più. Si fermò un attimo, alzò lo sguardo. Il fruscio delle fronde aveva aumentato la sua intensità e i rami intorno e sopra la sua testa scricchiolavano minacciosamente.
“Forse è in arrivo un temporale” - pensò - Lo stormire delle foglie aumentava. Un’improvvisa e impetuosa folata piombò dall’ontano nero con la furia di un uragano e si abbatté su di lei.
Il portone che delimitava il bosco improvvisamente si chiuse alle sue spalle con un rumore sordo. Margherita si voltò di scatto. Quel vento la sollevò da terra come una foglia e la scaraventò contro un ruvido tronco. Lei rimase lì, incollata. Schiacciata contro la corteccia priva di sensi. Un rivolo di sangue le rigava la fronte. Il suo zaino rosso, finito su un ramo, ciondolava sopra la testa, come la spada di Damocle. Lei giaceva muta e immobile con le gambe aperte e la schiena inchiodata all’albero.
Il bosco stava diventando la sua prigione.
All’improvviso, nell’oscurità della boscaglia, si materializzò una strana figura alta e bianca. Procedeva lenta, verso di lei: era imponente e non aveva volto, al suo posto un alone scuro. Da sotto il cappuccio, lumeggiavano due occhi. Ma a dire il vero, non sembravano pupille: erano simili a due led rossi, che lampeggiavano sulla sventurata.
Tutto intorno erano scese le tenebre.
A stento Margherita riuscì ad aprire gli occhi. Ancora incosciente, non si capacitava di quello che stava avvenendo. Sentiva solo un gran dolore alle ossa e la testa le scoppiava. Tentò di muoversi, voleva alzarsi. Cercò di appoggiare le mani sul terreno per fare leva e sollevarsi. Ma era rigida come la pietra e non riusciva ad articolare né braccia né gambe.
Cercò di muovere alcune parole, faceva fatica. Tentò di convincersi che quello che stava vivendo fosse un maledetto sogno. Provò a biascicare qualcosa: le sue labbra facevano fatica a muoversi. La sua bocca non riusciva ad articolare alcun suono. Mosse appena le pupille, si accorse che il suo zaino rosso era impiccato su un ramo e ciondolava mosso dal vento.
Ma com’era finito fin lassù?
Il terrore si stava facendo strada dentro di lei. Quello che le era successo era tutto tremendamente vero. Avrebbe voluto urlare, chiamare Philip. Dove s’era cacciato… perché non veniva in suo aiuto?
Il monaco vestito di bianco, da sotto il cappuccio, con i suoi led intermittenti, continuava a contemplarla senza parlare. Le si avvicinò, alzò il bastone che impugnava con la mano destra e lo alzò verso la cima degli alberi. In quel preciso istante una saetta si staccò dall’ontano nero e si abbatté ai suoi piedi. Un denso fumo rossastro si levò verso l’alto.
Margherita ansimava e respirava angosciata: quel fumo, che sapeva di zolfo, le grattava la gola. Provò a tossire e un fiotto di sangue scuro le fuoriuscì dalla bocca; le colò sulla giacca di nylon, fino a lambire le cosce spalancate
Lo schianto di quel fulmine aveva allertato i corvi. Non poteva muoversi, ma udiva il gracchiare sinistro di quelle bestiacce. Si erano staccate dalle chiome degli alberi e con un batter d’ali in un volo scomposto si dirigevano verso il monastero. Un ratto le si era avvicinato e leccava il sangue che aveva sputato e ora lo sentiva mentre girava curioso strisciando tra le sue gambe spalancate.
***
Era trascorsa quasi un’ora da quando Margherita l’aveva lasciato lì, da solo, a scattare quelle immagini. Philip aveva terminato il suo reportage, anche perché la luce non era più a suo favore. Quel tuono sentito poco prima lo convinse che il tempo stava cambiando. Era preoccupato, aveva visto i corvi svolazzare sopra la sua testa e, se la pioggia li avesse sorpresi, avrebbero dovuto percorrere a piedi quasi un chilometro per arrivare al fuoristrada. Si sarebbero inzuppati come pulcini. Raccolse la sua attrezzatura e cominciò a chiamarla. La sua voce echeggiava solitaria nel piazzale dell’eremo, ma di Margherita nessuna traccia.
Si inoltrò sul retro del monastero. Il portone verde, che conduceva al sentiero, era socchiuso. Lo sospinse con forza e presto i cardini arrugginiti cedettero alle sue spinte. La chiamò urlando ancora più forte con la speranza che lo sentisse:
“Margherita! Margherita è tardi, dobbiamo andare!”. Lei non rispondeva.
Il bosco, a mano a mano che si addentrava, diventava sempre più buio e tetro; la scarsa luce non riusciva a penetrare il fitto fogliame. Si sospinse ancora più avanti, continuando a chiamarla a squarciagola. Si respirava un’aria rarefatta di muffa, di morte. Proseguì ancora per alcune decine di metri dove il sentiero faceva una leggera curva: “Dove sei… ti prego rispondi!”
Alle sue suppliche non giungeva nessuna risposta e con l’attrezzatura sulle spalle faceva fatica a camminare. Ogni tanto, inciampava nelle radici che affioravano nascoste dal fogliame. Si ritrovò a terra e quando fece per alzarsi sentì un enorme boato. Un forte vento lo sollevò, con la stessa forza inaudita che poco prima aveva rapito Margherita, e lo fece atterrare a pochi passi da lei.
Una voce profonda, che sembrava provenire dagli inferi, lo scosse:
“Forse, era lei che cercavi?”. Sgomento, si guardò in giro, chi aveva parlato? Tutto era buio, solo un alone chiaro proveniva dal fondo del sentiero e lentamente si stava avvicinando.
Un ectoplasma che procedeva verso di lui.
Margherita giaceva di fronte a lui: sembrava moribonda. Le gambe nude erano sporche di sangue come se fosse stata stuprata. Le braccia abbandonate lungo il corpo e la testa riversa sulla spalla sinistra. Il volto tumefatto e insanguinato con un rivolo scuro che le usciva dalla bocca dischiusa.
Philip, in preda al terrore, tentò di avvicinarsi per sentire se respirava ancora. Nello stesso istante, dalla cima dell’ontano si staccò una saetta. Come una frustata, lo colpì e lo scaraventò con forza contro l’albero di fronte all’amica. Era tramortito: a stento riusciva ad aprire gli occhi. La stessa angoscia che poco prima aveva provato Margherita, aveva invaso anche lui.
Margherita era immobile, come drogata. Il suo petto sotto la maglietta ansimava appena. “È viva,” pensò. Ma chi poteva averle fatto questo scempio!
Mentre questi torbidi pensieri si agitavano nella sua testa, apparve di nuovo la figura incappucciata senza volto. Forse era quella che aveva parlato poco prima…
Il terrore si era insinuato nella sua mente e, come una tenia si stava nutrendo di lui. Maledetto quel reportage…
“Chi sei?” Provò a masticare solo quelle due parole. Non riuscì a dire altro. Tutto quello che stava vivendo non poteva essere vero, ma il dolore che lo attanagliava in tutte le parti del corpo e il sangue di Margherita, sì, quelli erano reali.
“Sei impertinente amico! Se vuoi saperlo sono lo spettro di frate Antonio.” E aggiunse: “Voi, impudenti, vi siete permessi di mettere il naso nel mio convento! Per questo pagherete!”.
Come poteva essere quello Frate Antonio?
A quelle parole stentoree, che come una sentenza li aveva bollati, si stava convincendo sempre di più che fosse stato lui ad aver compiuto quello scempio. Si ricordava della storia che aveva raccontato mentre erano in auto. Ma erano trascorsi cinquecento anni dalla vendetta di quell’uomo contro sua moglie e il suo amante.
Era lì dolorante, faticava a muoversi. Aveva la sensazione che una paralisi stesse avvinghiando i suoi muscoli. Quando alzò gli occhi, cinque losche figure incappucciate, in fila indiana, erano sbucate dal sentiero che si perdeva nel bosco e conduceva verso l’Eremo dei Frati Neri. Cinque frati con il saio scuro; e dentro quelle tonache dinoccolate, sembrava che non ci fossero dei corpi, ma solo ossa che rotolavano in una botte vuota. I cinque si avvicinarono mettendosi in semicerchio di fronte ai due malcapitati.
Frate Antonio dietro di loro, con la sua imponenza, li sovrastava come un direttore d’orchestra. Ora Philip li vedeva chiaramente, erano davanti a lui. Non avevano volto ma, cinque teschi con le orbite oculari vuote, lo puntavano minacciosamente.
Lui, li annunciò: “Questi sono i miei confratelli della Romita e, come me, sono a guardia del bosco. Costui è frate Gerlando”. Il frate si avvicinò accennando un inchino e, nel compiere il gesto, il teschio rotolò ai suoi piedi come una palla.
“Fra Golino…” esclamò Frate Antonio, “aiuta Fra Gerlando. Non vedi che sta perdendo la testa?” Lui si accostò a Philip per raccogliere il teschio e con un sorriso beffardo mise in mostra una dentatura approssimativa simile alle caselle di un cruciverba.
Poi, il capo vestito di bianco proseguì: “Lui è Fra Bernardo. È mite, ma quando si arrabbia è meglio stargli lontano.” Mentre lo presentava, il frate spalancò la bocca. Un filo, o forse uno spago, gli usciva dall’angolo destro. Con la mano ossuta lo tirò. Estrasse un grosso ratto e lo gettò vicino al fotografo. Philip non riusciva a muoversi e con gli occhi intrisi di terrore, lo vide avvicinarsi. La pantegana prese a rosicchiargli il cavallo dei pantaloni. Avrebbe voluto calciarla, ma era immobilizzato, incapace di muoversi. Come la sua amica che giaceva di fronte a lui.
Sentiva i suoi dentini che stavano scavando.
In quel momento si fece avanti un altro saio e Antonio disse: “Lui è Fra Giacinto. È di animo gentile e profuma come un fiore”. Il frate si chinò sul fotografo spalancando la bocca e, nello stesso istante gli fuoriuscì un fiotto di liquido verdastro e maleodorante. Quel liquame di fogna lo colpì in pieno. Nel frattempo, il ratto continuava a rosicchiargli i genitali. Ecco cos’era tutto quel sangue che fuoriusciva dalle gambe di Margherita.!
Adesso toccava a lui. Avrebbe voluto urlare ma non riusciva ad emettere suono. Semicosciente, tra dolori atroci, vedeva il Frate Bianco che continuava a fissarlo soddisfatto con i suoi led lampeggianti.
Il quinto e ultimo saio si fece largo. Si sorreggeva con un bastone nodoso: era Fra Monaldo. Il più vecchio e il più crudele dei cinque. Tutto tremolante, con un crocchiare di ossa si diresse verso Philip, fissandolo con le sue orbite vuote. La pantegana, intenta nel suo banchetto, appena lo vide saltò via impaurita e corse di nuovo verso Margherita nascondendosi tra le sue gambe insanguinate. Il vecchio scheletro ciondolante si avvicinò scagliandogli addosso il bastone. Per un attimo, quando il ratto smise di mordicchiarlo, Philip trovò sollievo ma solo per un istante. Quel bastone scagliato, a contatto con il suolo, si tramutò in un grosso pitone. Il serpente lentamente lo avvolse con le sue spire in cerchi sempre più serrati fino a soffocarlo.
Frate Antonio aveva compiuto la sua vendetta.
Alzò il braccio e una saetta fragorosa si abbatté di nuovo nel bosco a sigillo del loro operato. I cinque Frati Neri sgangherati e il Frate Bianco, si dileguarono in fila indiana tra la boscaglia.
***
Le locandine del Corriere Adriatico, la settimana successiva dopo il ritrovamento, a caratteri cubitali titolavano:
DUE GIOVANI
UCCISI DAI CINGHIALI
E DAI LUPI
NEL BOSCO DEI FRATI BIANCHI
Gli inquirenti nello svolgimento delle indagini si trovarono di fronte a molti dubbi. Troppe anomalie. Forse qualche cinghiale avrebbe anche potuto compiere quello scempio, ma i lupi? Lì non se ne erano mai visti.
Inoltre, quei corpi rimasti in quel bosco per sei giorni erano stati usurpati con una violenza inaudita. I genitali dei due giovani erano stati squarciati come se qualcuno si fosse divertito ferocemente a farlo. Quel luogo di pace e di raccoglimento era diventato un inferno per i due malcapitati. E quello zaino come era finito impiccato sul ramo dell’albero? Poi, quelle immagini scattate dal fotografo presentavano troppe singolarità.
Philip Sanders era uno dei pochi fotografi che ancora utilizzava apparecchi tradizionali. Non si era mai convertito al sistema digitale: lavorava ancora con la sua vecchia Nikon F2, caricata con la desueta pellicola Ektachrome. Gli investigatori esaminarono i film: trovarono delle strane ombre scure che aleggiavano nei fotogrammi. Come se ci fossero state delle misteriose presenze invisibili. Tutte le sequenze avevano lo stesso particolare: cinque aloni scuri e uno biancastro. Non erano affatto convinti che quello fosse un difetto di fabbricazione della pellicola Kodak. Ma nonostante tutte le incongruenze archiviarono il caso come un cruento incidente.
© Franco Duranti - agosto 2018