Era arrivato in quella valle perché lì aveva ancora vivo il ricordo di Luisa. Erano trascorsi due anni da quando lo aveva lasciato solo. Quel dolore allo stomaco che lei aveva accusato mentre erano in vacanza in Val di Fassa, presto si sarebbe rivelato qualcosa di molto più grave di una semplice gastrite. Nel giro di pochi mesi quel male devastante la portò via per sempre, da lui.  

Adesso Nicola, a cinquantatré anni, era lì, solo, in quell’albergo a quattro stelle e tutto quel lusso che lo circondava gli sembrava che fosse fin troppo per lui. Anche un albergo meno lussuoso sarebbe andato bene. Ma voleva ritornare lì, in quel posto che li aveva visti insieme per l’ultima volta.

     Quando telefonò per prenotare, per alcuni giorni, aveva preteso la stessa camera di allora: la numero duecentotredici. Il portiere gli assicurò che gliela avrebbe riservata per quel fine settimana di metà di luglio.

     Arrivò il sabato pomeriggio, tardi, trovando un clima fresco e mite proprio come desiderava. Anzi la temperatura era precipitata intorno ai dodici gradi. Infatti, la notte precedente la valle era stata battuta da un grosso temporale.

     Il ruscello che scorreva di fianco all’albergo, che aveva notato mentre arrivava con il suo fuoristrada, aveva l’acqua ancora offuscata e quel color caffelatte, lo intristì: se lo ricordava limpido, chiaro e saltellante. Molte strade erano ancora invase da pozzanghere e da residui di aghi di pino ammonticchiati dal vento e dalla pioggia.

     Alla reception, ancora una volta, trovò a riceverlo Antonio, lo stesso portiere calabrese: piccolo di statura con la carnagione scura, i capelli neri e lisci pettinati con una riga a sinistra, a dividerli ordinatamente. Appena Nicola si presentò al bancone lo riconobbe, nonostante di gente ne passasse tanta in quell’albergo.

     Lo ricevette con cordialità:

     “Benarrivato dottore! Ha visto che temporale abbiamo avuto stanotte?”

     Nicola Palmesano annuì e gli fece piacere che si fosse ricordato il suo nome, anche se, dopotutto era facile ricordarselo dal momento che figurava nella lista dei nuovi arrivi. Fortunatamente non aggiunse altro. Nessun cenno alla moglie e questo lo confortò. Dopotutto la discrezionalità verso i clienti è una caratteristica che ogni buon albergatore deve possedere.

     Era giunto, in quel meraviglioso posto, e non sapeva bene nemmeno lui perché. Forse per ricordare la sua metà, o forse per dimenticare e ricominciare a vivere. Ma di sicuro quell’albergo non l’avrebbe aiutato a scrollarsi di dosso il dolore che ancora provava.

     Contraccambiò il saluto:

     “Grazie Antonio, la camera… la stessa vero?” Tagliò corto. Lui era di poche parole e la scomparsa della moglie lo aveva reso ancora più taciturno.

     “Certo, sono riuscito a fare come lei ha chiesto, dottore. Mando a prendere le sue valigie.”

     “Lascia stare Antonio, ho solo un trolley e un borsone. Faccio da me, grazie.”    

     “Come preferisce dottore, la chiave è qui: la numero duecento tredici”

     Poi, siccome doveva tenere aggiornato il registro delle presenze aggiunse:

     “Quanto pensa di fermarsi?”

     “Quattro o cinque giorni… dipende da come andrà.”

     “Bene. Allora gliela tengo impegnata fino a giovedì prossimo.”

     “La cena alla solita ora, vero?” Gli chiese, mentre dalla reception osservava i camerieri intenti a preparare i tavoli, sotto lo sguardo vigile del direttore del ristorante. Anche lui era una vecchia conoscenza, come Antonio. Lo stesso direttore alto e dritto come un palo: con il suo naso aquilino, come un radar era alla ricerca di eventuali sbavature tra i tavoli apparecchiati. Lo stesso papillon nero spiccava dalla sua candida camicia.

     Prese i suoi bagagli ed entrò nell’ascensore. Pigiò il tasto due e attese che la porta si spalancasse per accedere al corridoio che lo avrebbe condotto alla sua camera. Vuotò il trolley ed il borsone. Collocò con precisione le sue cose nell’armadio e nei cassetti. Aprì l’acqua della doccia e si fece investire da un piacevole getto tiepido.

***

     Quando scese per la cena la sala non era gremita, come si aspettava. I tavoli erano tutti apparecchiati, ma molti erano vuoti. Forse alcuni villeggianti avevano disdetto le prenotazioni per il maltempo degli ultimi giorni o forse, a causa del temporale che aveva imperversato nella valle, molti avevano ritardato l’arrivo. Ma comunque lui era lì e quella vacanza voleva godersela.

     Il cameriere lo accompagnò al suo tavolo, il numero ventiquattro. Un tavolo rotondo per due, con la tovaglia damascata rosso bordeaux e i tovaglioli color senape che svettavano dai calici come due rose. Ordinò una bottiglia di Pinot grigio e attese che il cameriere glielo versasse. Era fresco al punto giusto. Lo assaporò con piacere, annuendo. 

     Di fronte al suo tavolo erano sedute tre persone sulla quarantina: due donne e un uomo. Parlavano sottovoce, ma riuscì a captare alcune frasi. Di sicuro erano di origine tedesca. L’uomo con i capelli scuri era seduto di spalle e alla sua destra, forse sua moglie: una giovane donna con i capelli biondi pettinati a caschetto. Di fronte a lui, l’altra donna, di qualche anno di più giovane della bionda. Aveva gli stessi lineamenti, ma lo colpì il colore dei capelli: un rame acceso, quasi rosso. L’aveva notata quando si era alzata per andare al tavolo del buffet. Indossava pantaloni attillati neri e una blusa svolazzante, di morbida seta azzurra, che le copriva il fondoschiena. Una collana, di pietre colorate, riposava morbidamente tra i seni importanti e generosi.  Calzava dei sandali bassi bianchi e, nonostante non avesse i tacchi, era molto alta. La sua capacità di calcoli e misure, lo aveva convinto che quella donna, sicuramente, fosse stata almeno dieci centimetri più alta di lui. Quindi, circa un metro e ottanta, o forse di più.

     La cena si svolse silenziosamente, i tre parlavano sottovoce per non disturbare. Nella sala echeggiavano solo le grida di un bambino, che si rivolgeva ai genitori con un marcato accento napoletano. Anche il loro tono era di qualche decibel troppo alto.

     Lui era lì per trovare un po’ di pace e ciò lo infastidiva.

     Abbassò lo sguardo sul piatto: era alle prese con un filetto di salmone al burro con contorno di fagiolini al vapore. Di tanto in tanto alzava gli occhi. Notò, più di una volta, che la tedesca dai capelli rosso rame lo osservava. Ricambiò il suo sguardo con un lieve sorriso e di rimando lei fece altrettanto. Terminata la cena i tre si alzarono. La coppia si diresse verso l’ascensore, mentre la giunonica tedesca in giardino, sul retro dell’albergo, dove erano sistemate alcune poltrone e divani in rattan intrecciato, con morbidi cuscini bianchi.

     Nicola era entrato in sala per ultimo e stava ancora terminando la sua cena. Controvoglia spiluccò il dessert che gli avevano servito. Quindi si alzò, prese la giacca a vento, la indossò e andò fuori. L’aria era fresca. La tedesca stava fumando seduta in poltrona e parlava al telefono. Lui non riusciva a capire una sola parola, ma alla fine della conversazione comprese solo il saluto: Gute nacht!

     Si avvicinò a lei per attaccare discorso:

     “Buonasera, posso presentarmi? Sono Nicola.”

     Di solito, lui non prendeva mai l’iniziativa, ma i suoi sguardi l’avevano incoraggiato. Non era sicuro di quello che sarebbe successo, ma era lì, solo. Solo come un cane in cerca di coccole. Lei gli sorrise, si alzò e gli tese la mano:

     “Ingrid, Ingrid Schiller. Italiano, vero?”

     “Sì, di Macerata. E tu, tedesca devo supporre.” Come aveva immaginato, era circa di una spanna più alta di lui. Era davvero imponente.

     “Ja, di Hannover. Ma tu non sembri italiano…”

     “Cioè? Perché non ti sembro italiano?”

     “Tu, uomo silenzioso. Non fare casino.”

     “Ah! Perché gli italiani fanno casino?”

     “Ja, ad Hannover tanti italiani. Ristoranti italiani, pizzerie italiane, birrerie italiane. Tanto casino, mafia. Tu non sembri come loro.” E, mentre parlava lo squadrava, continuando a fumare. Lui si tolse gli occhiali appannati per lo sbalzo termico.

     “Grazie, ma non siamo tutti così. Nemmeno tu sembri tedesca con questi capelli rossi.”

     “Ti piacciono? Ho fatto il colore prima di partire, troppo rossi?”

     “No, stai bene!” Gli confermò, anche se non era vero.

     “Dank.”

     “Sei sola?”

     “Sì. Mio marito é in Germania. Era lui che mi dava la buona notte.” E aggiunse: “Io, in vacanza con mia sorella e mio cognato. E tu?”

     “Sì. Mi sono concesso alcuni giorni di riposo. Da solo”

     La conversazione procedeva con fluidità, ma lui non voleva addentrarsi troppo nella sua vita privata. Quella era solo sua e dei suoi problemi e delle sue pene, a Ingrid non gliene avrebbe fregato nulla. Non era necessario che le spiegasse che sua moglie era morta. Che non avevano avuto figli perché Luisa, a trent’anni, aveva avuto un problema alle ovaie. E lui non se l’era sentita di adottarne uno. Sarebbe riuscito ad amarlo come fosse stato suo?

     Nicola stava sulle difensive. Dopo la morte di Luisa non aveva avuto più nessuna relazione con l’altro sesso e si sentiva un po’ impacciato. Erano trascorsi due anni e il solo sesso che aveva praticato era stato l’autoerotismo.

     Lasciati i suoi pensieri, sbloccò la fase di stallo offrendole da bere:

     “Prendiamo qualcosa? Ti va una grappa?”

     “Sì, danke.” Rispose sorridente. Lui andò al bar e si presentò poco dopo con i due bicchieri in mano. Glielo porse e si sedette di fronte alla sua poltrona.

     “I tuoi amici, cioè scusa, tua sorella e tuo cognato, non vengono giù?”

     “No. Mia sorella Anne e mio cognato, Gerd stanchi. Sono andati a dormire.”

     “Come mai tuo marito non è con te?”

     “Mio marito è ad Hannover. Per lavoro, io vacanza. Tutte le sere ci sentiamo.”

     “Tu, che lavoro fai?”

     “Corrispondente in lingue, per un’azienda chimica di Hannover. E tu?”

     “Io? Ingegnere edile. Nelle Marche a Macerata. Conosci le Marche?

     “Ja. Io stata al mare a Senigallia. Bella la tua regione. Tutta Italia è bella!”

     E mentre stavano chiacchierando, si era alzato un vento fastidioso che li fece rabbrividire, ma per il giorno dopo il meteo aveva previsto bel tempo. Lui aveva deciso di alzarsi di buon’ora per un’escursione in valle San Nicolò, per poi procedere fino al rifugio, e quindi proseguire per val Contrin. Prima di scendere per la cena aveva già preparato l’attrezzatura necessaria.

     “Domattina vado a fare un giro. Ti piace camminare?”

     “Ja, noi andiamo con la funivia fino a col Rodella. Poi passeggiata in quota… tranquilla.”

     Lui, invece, voleva ripetere la stessa escursione fatta l’ultima volta con la moglie. La foto incorniciata di quella gita, di loro due sorridenti, era ancora appoggiata sul mobile basso della sala da pranzo della sua casa di Macerata. Prima di partire per quella vacanza, l’aveva guardata con un po’ di tristezza. Quella tristezza che lo attanagliava tutte le volte che ripensava a lei.

***

     Alle sette e trenta era già lì. Aveva lasciato il fuoristrada nel parcheggio all’inizio della valle. Una ventina di auto erano in ordine ai margini del fitto bosco di pino e di larice. Con lo zaino sulle spalle iniziò il suo percorso imboccando il sentiero 608.  Il suo fisico non era ben allenato e le gambe presto cominciarono ad appesantirsi. La crisi gli sopraggiunse dopo un paio d’ore di cammino. Ma, quell’aria pura lo inebriava. Camminava ai margini del bosco e sentiva scorrere, alla sua destra, il ruscello che saltellava tra le rocce e le radici dei pini. A mano a mano che il sentiero saliva il paesaggio cambiava. I boschi si diradavano, lasciando spazio alla roccia nuda e al pino mugo. Sotto un roccione, mentre stava inerpicandosi, una grassa marmotta, per nulla intimorita, lo stava osservando. Si sedette un attimo per rifiatare e si squadrarono a lungo. Poi lei, forse infastidita della sua presenza, si allontanò tra i ciuffi d’erba e le rocce. Sparì in uno dei tanti buchi usati da questi roditori, come uscite di servizio delle loro tane.

     Nicola riprese inesorabile il suo cammino, superando un discreto dislivello. Giunto alla baita delle cascate, si sedette sullo stesso prato dove due anni prima, lui e Luisa si erano immortalati felici e sorridenti con l’autoscatto. Loro due, insieme, su quella montagna per l’ultima volta. L’acqua, come allora, scendeva a saltelli, tra il verde e il grigio della roccia, formando un reticolo di piccole cascatelle: un ricamo che specchiava al sole già alto di metà mattino. Alzò lo sguardo verso il cielo. Era di un azzurro intenso, insostenibile. Non volle scattare foto. Preferiva che quell’immagine rimanesse lì, tra quei boschi e nei suoi ricordi. Con lo zaino sulle spalle si diresse alla baita: uno strudel con panna e un thè gli avrebbe ridato la carica per proseguire verso il rifugio Contrin, Poi, avrebbe oltrepassato la malga e da lì con il sentiero 609 sarebbe tornato verso il fondovalle.

     Sulla strada del ritorno, la folla di escursionisti era aumentata rispetto all’andata. Gruppi eterogenei di persone continuavano a salire, mentre altri come Nicola scendevano. Incrociò famiglie con bambini stanchi e piagnucolosi, carrozzine sospinte da padri che sbuffavano, mentre mogli, con scarpe inadatte ai sentieri rischiavano di slogarsi le caviglie ad ogni passo. Alcuni vecchi escursionisti sulla sessantina e oltre, abituati alla montagna, procedevano invece decisi mantenendo un passo costante e cadenzato. Anche lui aveva sofferto all’inizio ma, superata la criticità dei primi chilometri, aveva trovato il ritmo giusto dei passi e della respirazione.

     Quando raggiunse l’auto, erano da poco passate le diciotto. Il parcheggio pullulava di auto e non sembrava di essere in montagna, bensì all’esterno di un ipermercato.

     Si sentiva stanco, ma felice per l’impresa che era riuscito a compiere. Mise in moto il fuoristrada, pensando a Ingrid. Ingranò la marcia e si diresse a valle. In pochi minuti raggiunse il centro abitato di Pozza di Fassa. La borraccia era vuota e la riempì ad una fontanella che zampillava ininterrottamente. Poi, accortosi che gli servivano alcune cose, si fermò alla farmacia del paese: una crema idratante e lenitiva per il sole, un collirio e una confezione di pillole.

     Giunto in albergo, sistemò il fuoristrada poco lontano dalla vettura dei tedeschi. Ingrid non c’era. Molti villeggianti erano in salotto e stavano raccontandosi le loro avventure nell’attesa della cena. Nicola non era abituato a quei pasti anticipati: i suoi tempi cittadini erano ben lontani da quelle abitudini vacanziere. Aveva deciso di fare un pasto leggero. La pillola blu che doveva assumere avrebbe avuto il suo migliore effetto se lo stomaco non fosse stato troppo appesantito.

     Appena uscito dalla doccia e dopo essersi rasato, scese in sala da pranzo. Il numero dei villeggianti, rispetto al giorno precedente, era aumentato e tutti erano alle prese con le varie pietanze. Molti avevano già terminato e ronzavano come mosche intorno al tavolo del buffet dei dolci.

     Nicola, incurante di tanto movimento, si diresse silenziosamente al suo tavolo e salutò con un lieve inchino la compagnia dei tedeschi. Con lo sguardo, si soffermò su Ingrid che gli sorrise. Quella sera aveva cambiato abbigliamento. Sfoggiava un completo di morbido jersey giallo canarino e un’ampia scollatura metteva in risalto ancora una volta il suo petto. Le spalle erano coperte da uno scialle nero con frange gialle, che involontariamente, sarebbero potute finire nel piatto.

     Lei si alzò servirsi al buffet e Nicola non poté fare a meno di notare come quell’abito fasciasse le sue rotonde forme. Lei si accorse di avere addosso i suoi occhi e ammiccò con un sorriso complice.

     Presto l’ingegnere finì di cenare.  Aveva ordinato del prosciutto crudo con un’insalata mista e, mentre stava terminando la sua cena leggera, la sala si era già vuotata. I camerieri con solerzia avevano già iniziato a riordinare i tavoli.

     Ingrid si alzò per andare a fumare e lo invitò a bere all’esterno.

     “Ti aspetto di là, vieni?”

     “Sì, arrivo tra qualche minuto!”

     “Allora ordino da bere. Va bene una grappa, come ieri?”

     “Ok.” Le rispose sintetico.  

     Era in ansia per il proseguo della serata. Sapeva che qualcosa sarebbe successo. Ma aveva il timore di non essere più capace di amare. Due anni di riposo forzato. Senza sfiorare una donna…

     Poi, adesso, Ingrid con la sua stazza, un po’ lo intimoriva. Aveva perso le sue sicurezze. La solitudine era diventata una sofferenza.

    ***

     Quando arrivò in giardino, i due bicchieri di grappa erano già sul tavolo. Lei stava fumando nervosamente in attesa del suo arrivo:

     “Oh! Finalmente sei arrivato… come è andata la giornata?”

     “Bene, grazie. Un po’ stanco, ma soddisfatto!”

     Ingrid gli allungò il bicchiere: “Prosit!” e aggiunse, “Vuoi andare a letto? Sei stanco…”

     “No, possiamo parlare se vuoi.”

     “Tu, Nicola parli poco. Perché… non ti piace la mia compagnia?”

     “Certo che mi piace…. È che sono turbato… mia moglie:”

     “Vi siete lasciati?

     “No. Lei mi ha lasciato… ormai sono due anni.”

     Nicola, piano piano, si stava sbloccando e iniziò a raccontarle, a grandi linee, la sua vita e ciò che gli era accaduto. Ma non voleva essere patetico. Non cercava la sua compassione, dopotutto lei era in vacanza e, delle storie di un ingegnere di Macerata, incontrato per caso in montagna, non le sarebbero interessate molto. Si sfilò gli occhiali e si asciugò il bordo esterno dell’occhio arrossato e lacrimoso. Forse il sole impietoso del giorno lo aveva irritato. O, forse no!

     Lei lo ascoltava assorta e appena lui fini di parlare gli disse:

     “Mi dispiace. Posso aiutarti. Vuoi?” 

     In quel preciso momento squillò il suo telefono. Di scatto, si alzò, posò il bicchiere e si giustificò con lui: “Scusa un attimo, mio marito…”

     Si allontanò e iniziò a parlare velocemente in tedesco, con un’intonazione concitata. Nicola non dava peso a quello che diceva, anche perché non comprendeva quella lingua. Ma ripensava a quello che, prima di alzarsi, tra le righe gli aveva offerto: Posso aiutarti. Vuoi?

     Poco dopo Ingrid salutò il marito con un: “Dank!. Gute Nacht.” E chiuse la conversazione.

     Poi, per riprendere il filo del discorso interrotto propose:

     “Vuoi che venga da te, dopo?”

     “E tuo marito?” Rispose un po’ incredulo.

     “Mio marito vuole che io mi diverta, no? Tu mi piaci, Nicola”

     “Anche tu Ingrid mi piaci, ma tua sorella… tuo cognato?”

     “Io sono in camera da sola. Se vuoi, dopo posso venire da te! Ja?”

Lei fece tintinnare il suo bicchiere con quello di Nicola, bevvero la grappa tutta d’un fiato e lui sorridendo rispose:

     “Ja!”

     “A dopo. Camera duecentotredici.”

***

     Tre colpetti discreti alla porta. Giusto per farsi sentire da lui e non disturbare chi già dormiva. Era da poco passata la mezzanotte e a quell’ora in albergo erano già quasi tutti a letto.

      Nicola era appena uscito dalla doccia e stava frizionandosi i capelli ancora umidi.

     Giusto in tempo! – pensò. Quando le aprì, notò che lei aveva rifatto il trucco ed emanava un gradevole profumo. Anche lei era uscita da poco dalla doccia, ma lo aveva preceduto.    

     “Prego, entra!” Nicola si avvicinò al suo viso per baciarle la guancia e sentì la sensuale fragranza del patchouli emanato dalla sua pelle bianca e liscia.

     “Grazie,” le rispose. Era la prima volta che dalla sua bocca usciva ‘un grazie’ in italiano.

     Poi aggiunse:

     “Posso entrare?” Domanda retorica: una fluida corrente li stava spingendo nella stessa direzione. Lui la fece accomodare sulla poltrona a fiori, quegli stessi fiori delle tende della camera. Nicola le si sdette di fronte e per rompere il ghiaccio disse:       

     “Non ho niente da bere, ho solo acqua.”

     “Abbiamo già bevuto in giardino!”

     “Perché sei venuta qui?”

     “Se non vuoi, vado via.”

     “No, rimani …lo voglio.”

     “Tu pensi che io sia una puttana?”

     “No, forse dovevamo incontrarci… non so”

     “A me, tu piaci. Sei così discreto, di poche parole.” E aggiunse: “Io posso dare amore.”

     Si alzò lentamente e gli si avvicinò. Con la tenerezza di una madre premurosa, gli accarezzò il viso fresco di rasatura. Poi, la sua grande mano scivolò intorno alla sua nuca ancora umida, accarezzandogli i capelli neri spuzzati di grigio. Lui gliela prese e l’accostò alle labbra. Ingrid si tolse la felpa e con cura la posò sulla poltrona. Quella carezza, tra i capelli, lo aveva acceso. O forse era la pillola blu che cominciava a fare il suo effetto. Sentiva uno strano calore addosso: un calore anomalo si stava irradiando lentamente nella parte superiore del corpo. Lei gli si inginocchiò accanto e lentamente prese ad accarezzargli le gambe. E mentre lei continuava a sfiorarlo, lui stava rendendosi conto che presto avrebbe ricominciato a esistere. Avrebbe ripreso a vivere e ad amare. Nicola la fermò e si alzò per spegnere le luci della camera. Lasciò accesa solo quella del bagno che, con la porta socchiusa creava un alone di debole penombra.

     Nicola si adagiò sul letto. Desiderava che fosse lei a spogliarlo. Ingrid, intanto, nella semi oscurità lentamente si stava denudando. Gli si avvicinò di nuovo, Nicola era supino e attendeva le sue mani, la sua bocca.

     Riprese ad accarezzarlo da dove aveva interrotto.

     Lui, subiva passivamente le sue effusioni. Era da troppo tempo che non amava e temeva di non esserne capace. Lei lentamente lo spogliò, continuando a sfioralo con le labbra tumide. La sua bocca finalmente lo incontrò. Nicola ebbe un sussulto e s’irrigidì. Lei, ora, aveva il completo dominio su di lui. Lui era pronto per amare.

     “Aspetta!” Lei si alzò e, mentre si dirigeva verso la borsa appoggiata sulla poltrona per prendere il profilattico, Nicola le osservava la rotondità del fondo schiena e dei fianchi: era eccitato. Ingrid gli si sdraiò di nuovo accanto. Finalmente l’ingegnere si stava svegliando dalla passività che lo frenava. Prese l’iniziativa: le sfiorò le cosce e lentamente le sue dita…. Lei lo lasciò giocare e in pochi attimi prese fuoco. Ingrid si muoveva ritmicamente sopra di lui e, mentre percepiva dentro di sé tutto il suo vigore, smaniava:

     “Ja, ja, shon Wieder!” Lui, non capiva le sue parole. Ma era oppresso dal peso del suo corpo che lo schiacciava, quasi immobilizzandolo.

     Lei continuava a parlare con il rischio di svegliare i villeggianti:

     “Warum…warum! Ja, Jaaa..!” E raggiunse l’orgasmo. Nicola no. La mole della rossa tedesca lo teneva schiacciato nel materasso, ma… con una rapida mossa del bacino, riuscì a divincolarsi ed uscì da lei.

     Ingrid si lamentò:

     “Weil du es tust? - ...Perché?” Sospirò in italiano manifestandogli la sua frustrazione.

     In quella battaglia corpo a corpo, lui non aveva proferito una sola parola. Nicola era silenzioso anche in quei momenti. Con delicatezza, sospinse Ingrid. Lei lo assecondò e si trovò in posizione prona. Nicola, allora, la prese per i fianchi, la sollevò e la mise a carponi. Lei lo lasciò fare. Adesso era l’ingegnere ad avere il dominio dell’azione. Si inginocchiò dietro di lei e con decisione di nuovo fu dentro di lei.

     “Oh, mein Gott!” Ancora una volta lo sentiva dentro di sé e cedette alle sue spinte.

     “Ja, ja shon Wieder!” Continuava con le sue espressioni in tedesco. Lui non capiva, ma era consapevole del suo ardore represso.

     Dopo due anni, grazie a Ingrid, si sentiva come approdato a nuova vita. Era riuscito a sentire di nuovo quelle sensazioni che, seppur mai provate con Luisa, stava vivendo con lei. Con quella donna, incontrata per caso in vacanza.

    ***

     Nei giorni successivi, i loro incontri si susseguirono con la stessa passione del primo appuntamento. Nicola, finalmente, aveva ritrovato se stesso. Il fantasma di Luisa, lentamente era svanito.

Ingrid, che non si era mai persa, aveva ‘riempito’ i vuoti lasciati dal marito.

     Finirono di trascorrere, quei giorni di vacanza sempre insieme, a passeggio tra i boschi; prendevano il sole sul greto dei ruscelli e si abbandonavano a effusioni come due adolescenti. Incuranti di chi transitava nei loro paraggi. L’ultimo giorno di vacanza lo passarono sotto la Marmolada. Si fermarono a prendere il sole sulle sdraio dello chalet sul lago di Fedaia. Il cielo limpido si rifletteva turchino sulla superficie del lago, mentre sulla riva alcuni pescatori erano a caccia di trote. Ma troppe comitive di chiassosi turisti li disturbavano e Nicola propose di scendere più a valle in un luogo più isolato.

     Si abbassarono di circa quattrocento metri e giunsero a Pian Trevisan, dove il torrente Avisio, dai ghiacci della Marmolada iniziava la sua lenta discesa a valle.

     E lì, sulla riva, a due passi dal bosco, spiluccarono le prime fragoline mature. Il rosso spiccava invitante tra il tenero verde, mentre i mirtilli non erano ancora maturi.

     “Ti piace questo posto? Possiamo fermarci qui, se vuoi.” Il pianoro non era frequentato. Solo un’altra coppia era sdraiata al sole, poco lontano.

     “Ja, molto bello qui. Mi piace questo rumore dell’acqua che saltella.” Lei si spogliò e rimase in due pezzi. Immerse i piedi nudi nell’acqua fredda e un brivido la scosse, poi un altro e un altro ancora. E ad ogni movimento, Nicola sorrideva divertito.

     Si tolse la camicia a scacchi e rimase a torso nudo. Si adagiarono uno accanto all’altro sulla coperta di cotone distesa sul breve tratto di riva sabbiosa. Chiuse gli occhi e si strinsero la mano.

     Lui disse:   

     “Mi dispiace che tutto finisca”

     “Anche a me. Sono stata bene… e tu?”

     “Io, credo che mi rimarrai dentro. Per sempre… grazie.”

     “Non devi ringraziarmi.”

     “È successo tutto così velocemente. In modo imprevedibile.”

     Ingrid rimase silenziosa per un attimo poi, fissandolo negli occhi, aggiunse:

     “Il nostro è stato un incontro siglato dal destino. Le nostre anime si sono trovate. E tu, hai capito che si può amare, ancora. Io ti ho solo aiutato.”

     E appoggiò la testa sul torace. Lui la strinse a sé accarezzandole i capelli. Si stava convincendo che, dopotutto, quel rosso rame non le stesse così male...

    

    

© Franco Duranti - luglio 2018